Scarica il file in PDF – Afghanistan I – maggio 2022 – de lellis
La rinascita dell’Emirato talebano
Parte I: le origini del radicalismo in Afghanistan
Arianna De Lellis
L’Europa sta assistendo da due mesi alla guerra, alla sua escalation e al rischio della sua cronicizzazione in Ucraina, nonostante il fronte euro-atlantico sia reduce dal recente disastro in Afghanistan. È infatti poco più di un anno fa, il 14 aprile 2021, che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden annunciava il ritiro delle truppe programmato a partire dal 1° maggio, il quale sarebbe terminato entro la data simbolica del 1° settembre. Pochi esperti ed analisti prevedevano ciò che sarebbe accaduto di lì a poco: l’offensiva talebana avrebbe presto preso forza e conquistato i territori afgani, controllando distretti, città nevralgiche e, infine, quasi l’intero paese.
L’Afghanistan è stato definito “tomba degli imperi”. Moghul, sasanidi, britannici, sovietici e americani non sono mai riusciti nei secoli ad avere un controllo stabile sul territorio afgano o a imporre sistemi di governo stabili in Afghanistan. In tutte queste guerre le truppe straniere, superiori certamente sul piano logistico, organizzativo e tecnologico, hanno avuto successo nel vincere singole battaglie, a far insediare governanti legati a loro e a conquistare la capitale, ma non sono mai riuscite a occupare stabilmente il territorio, a controllarlo e a mantenerlo. Le azioni di guerriglia afgane hanno sempre sfiancato il nemico e, mentre la motivazione del popolo afgano rimaneva intatta, quella degli invasori si indeboliva.
La collocazione geografica dell’Afghanistan, crocevia tra Asia centrale, occidentale e meridionale, ha fatto sì che questo paese fosse attraversato continuamente da popoli ed etnie differenti, e quando a questo si aggiunsero anche gli interessi geopolitici ed economici, le mire espansionistiche occidentali portarono il paese a subire continue invasioni. Ciò non fece altro che alimentare e creare il terreno fertile per il risentimento islamista, favorendo lo sviluppo dei mujaheddin, del movimento talebano e di al-Qa’ida, autore degli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono dell’11 settembre 2001. All’indomani del vile attacco, nell’ottobre dello stesso anno, iniziava l’operazione Enduring Freedom, con la quale si perseguivano due obiettivi: il primo era distruggere le basi della rete qaidista, il secondo mirava a rimuovere il regime talebano, al governo dal 1996. Nel giro di poche settimane l’Emirato islamico guidato dal mullah ‘Omar crollava, sotto le bombe della coalizione guidata da Stati Uniti e Gran Bretagna.
Dopo quasi vent’anni di guerra, il 15 agosto 2021, i Talebani entravano nuovamente a Kabul, proclamando la rinascita dell’Emirato islamico, mentre i contingenti internazionali si affrettavano a lasciare la capitale afgana e tentavano di salvare i civili che avevano collaborato con loro, ma l’evacuazione frettolosa si è conclusa sul finire di agosto con una serie di attentati suicidi rivendicati da IS-K, una branca afgana di ISIS, contro la popolazione afgana che si accalcava ai cancelli dell’aeroporto, sperando di abbandonare il paese. Come è stato possibile il fallimento occidentale nell’esportare la democrazia in Afghanistan? E come è stato possibile da parte dei Talebani ricostituire l’Emirato Islamico vent’anni dopo?
Questo articolo cerca di ricostruire la natura del movimento talebano e il contesto dal quale questo emerse, provando a spiegare la forza ideologica che lo muove, ripercorrendo tanto la storia del paese quanto quella dei Talebani. Il desiderio di scacciare l’invasore è stato il catalizzatore e il collante di diversi gruppi, tra i quali al-Qa’ida, i Talebani e i mujaheddin. Armati e finanziati da Arabia Saudita, Pakistan e Stati Uniti, questi hanno lottato contro il governo centrale filosovietico controllato dal Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan. Con la caduta dei sovietici, rapido è stato l’acuirsi dei conflitti tra le fazioni giungendo alla guerra civile nel 1992.
È in questa cornice che negli anni Novanta si sono imposti i Talebani, gli “studenti” coranici che hanno studiato nelle madrasa pachistane e lì sono stati influenzati dal conservatorismo deobandita, caratterizzandosi per un’interpretazione rigida del messaggio coranico. In seguito si affronterà l’ascesa talebana, poiché, da semplice movimento, in pochi anni gli “studenti” guidati dal mullah ‘Omar hanno conquistato il territorio dando vita all’Emirato islamico. Il loro governo vide, però, una violenta battuta d’arresto a causa degli attentati del settembre 2001. Il 7 ottobre dello stesso anno ha avuto inizio l’operazione Enduring Freedom, la quale ha rovesciato il governo talebano e ha obbligato il paese a un edificio istituzionale imposto “dall’alto” e sulla base di modelli occidentali, rendendolo debole e privo di legittimazione. Di questo vuoto politico, tra le operazioni militari condotte dalle coalizioni internazionali, si sono avvantaggiati i Talebani, riapparsi in Afghanistan già tra il 2002 e il 2003, i quali intrapresero una campagna di riconquista del paese.
Infine si vedranno gli accordi di Doha del febbraio 2020 sottoscritti da Trump e dai Talebani, i quali hanno permesso a questi ultimi di procedere con la conquista del territorio afgano rimanente. La loro avanzata ha subito un’accelerazione dopo che Biden ha confermato e avviato il ritiro delle truppe americane e della Nato. La presa di Kabul ha dimostrato che in due decenni non c’è stata una reale ristrutturazione né della società afgana, né dell’economia né tantomeno della struttura politica del paese. Per quanto gli ultimi anni abbiano portato certamente benefici sul piano sociale, questi non sono riusciti a scardinare i legami etnici e clientelari intrinsechi del paese, e conoscere tale realtà e la storia afgana avrebbe, forse, impedito di arrivare a ciò che abbiamo assistito il 15 agosto 2021 e i giorni immediatamente seguenti.
- Il movimento islamista in Afghanistan
Strettamente legato e intrinseco al contesto dal quale emersero gli attori principali afgani è il movimento islamista nel paese, catalizzatore degli eventi futuri. A metà degli anni Settanta, l’Afghanistan si stava modernizzando da decenni e tale fase permise a nuovi partiti di nascere e ad altri, che fino ad allora avevano agito in clandestinità, di uscire allo scoperto. Questi partiti si svilupparono in ambito urbano, soprattutto tra i giovani che frequentavano scuole superiori ed università e l’intellighenzia che emerse in questi ambienti, pur non appartenendo più alla società tradizionale che, anzi, disprezzava e sentiva estranea a sé, non sarebbe riuscita tuttavia, ad eccezione di una fase iniziale e limitatamente, ad entrare nei gangli del potere. È dalla commistione delle speranze di rinnovamento e delle frustrazioni ad esse legate che negli anni Sessanta e Settanta il paese vide la nascita di movimenti islamisti e comunisti[1].
Nel 1965 fu fondato il Partito Popolare Democratico dell’Afghanistan (PDPA), strutturato secondo il modello del Partito comunista sovietico. Indubbi erano i finanziamenti provenienti da Mosca dei quali si avvalse e anche la sua ispirazione marxista-leninista[2]. Sin dal 1966 il PDPA si trovò ad essere fratturato al suo interno in due correnti, una guidata da Nur Mohammed Taraki, a cui si aggiungerà in seguito Hafizullah Amin, e l’altra ala guidata da Babrak Karmal. La divisione non assecondava le linee ideologiche, bensì seguiva rivalità personali e considerazioni tattiche. Karmal, pienamente consapevole delle caratteristiche intrinseche della società afgana, era più propenso ad un approccio graduale che non spaventasse la classe media ed era favorevole alla collaborazione con il sovrano. D’altro canto, Taraki sosteneva che il sistema dovesse essere modificato senza scendere a compromessi, in modo da evitare di intaccare la purezza degli obiettivi originari[3].
A partire dagli anni sessanta, inoltre, il movimento studentesco legato al PDPA si trovò a contendere lo spazio universitario con gruppi di matrice islamista, i quali si opponevano alle riforme caldeggiate dal partito di stampo sovietico, accusato di ispirarsi all’Occidente “empio”, e con un’ideologia che rappresentava una rottura rispetto alla tradizione afgana. Nella visione islamista, il cambiamento andava ricercato altrove, ovvero nella reislamizzazione della società, da effettuarsi in seguito alla conquista del potere centrale. Solamente il controllo dell’apparato statale avrebbe infatti permesso agli islamisti di dare vita a una società veramente islamica, poiché essi si ergevano a esponenti della religione “autentica”. Inoltre, essi ritenevano che l’Islam del vissuto quotidiano, con i suoi sincretismi, commistioni e compromessi, andasse modificato, trasformato in un’ideologia rigida, fondata sull’approccio letterale al Corano, e autentica, nel senso di conforme all’esempio di Maometto. Affinché ciò avvenisse era necessario che lo stato dei musulmani fosse sostituito con uno stato islamico con la shari’a imposta tanto nella vita pubblica quanto in quella privata[4].
L’origine del movimento islamista nel paese afgano si può rintracciare nella seconda metà degli anni Cinquanta, periodo in cui si stavano diffondendo tra studenti e professori delle scuole superiori e dell’ambito universitario le idee di Sayyid Qutb e di Abul A’la Maududi[5], due importanti intellettuali islamisti. Il nucleo iniziale era composto da un gruppo di professori della facoltà di Kabul: Ghulam Mohammed Niazi, Burhanuddin Rabbani e Abdul Rab Rasul Sayyaf. Tutti e tre avevano in comune l’aver frequentato madrasa governative, ovvero istituti educativi che proponevano un percorso formativo basato sull’apprendimento dei principi della religione islamica, e l’aver trascorso periodi di studio ad al-Azhar, prestigiosa università cairota, dove entrarono in contatto con le idee della Fratellanza Musulmana. Nel 1972 il movimento islamista, imperniato su queste figure, formò un consiglio che più avanti avrebbe preso il nome di Jamiat-e islami, al quale apparteneva anche Gulbuddin Hekmatyar, uno studente attivo nel movimento studentesco[6].
Anche tra gli esponenti dell’islamismo afgano, così come nel PDPA, emerse negli anni Sessanta una scissione interna fra un’ala pragmatica, guidata da Rabbani, un docente di diritto islamico di etnia tagika, e una definibile purista, guidata da Hekmatyar. Il primo aspirava ad un cambiamento graduale, da attuarsi senza rotture definitive e radicali con le tradizioni locali tramite l’infiltrazione nelle istituzioni statali e grazie al dialogo con gli ulāma e con i rappresentanti del sufismo[7]. Nonostante Rabbani fosse stato influenzato dai Fratelli Musulmani, le cui idee poté conoscere durante la sua permanenza in Egitto, egli riuscì a mantenere la sua formazione che coniugava l’esigenza di tornare all’islam “autentico” e quella di rispettare il carattere popolare della religiosità.
Hekmatyar, invece, mirava ad una violenta sovversione dell’ordine costituito che potesse permettere di applicare la shari’a nel paese senza alcun compromesso. Ciò comportava discostarsi non solo dalle pratiche popolari dell’Islam ma anche dai suoi rappresentanti, con i quali Hekmatyar non condivideva nulla e, anzi, verso i quali nutriva diffidenza. Queste divergenze si tradussero nelle strutture interne di due diversi partiti: il Jamiat-e islami di Rabbani e l’Hezb-e islami di Hekmatyar, fondato nel 1976-1977. Le differenze strutturali tra Jamiat ed Hezb si tradussero anche sul piano organizzativo: il primo si configurava come un’associazione che aspirava a diventare un movimento di massa, ricalcando l’esempio dei Fratelli Musulmani in Egitto; il secondo, invece, era strutturato come un partito moderno, secondo il modello del Jamaat-e islami pachistano[8].
Accanto a questi partiti, frutto del movimento islamista, nuove realtà emersero e presero piede in Afghanistan, il cui catalizzatore fu l’invasione sovietica che ebbe inizio tra il 24 e il 27 dicembre 1979. La penetrazione sovietica causò un’ingente emigrazione verso i paesi vicini e presto si mobilitò la resistenza antisovietica, della quale attori fondamentali furono i mujaheddin, i combattenti ribattezzati freedom fighters, nonostante la loro brutalità. Questi ottennero finanziamenti americani, sauditi e di altra origine, e un ruolo cardine lo ebbe il Pakistan, poiché proprio sul suo suolo venivano inviate e distribuite le armi dagli Stati Uniti alla resistenza afgana, per mezzo dell’ISI (Inter-Service Intelligence), una branca dei servizi segreti pachistani. Uno dei principali luoghi di smistamento era Peshawar, provincia del Pakistan, dove si trovava la maggioranza dei profughi afgani e proprio a questa città sono legati i “partiti di Peshawar”, prodotto del duro e complesso lavoro di compattamento della resistenza da parte pachistana.[9]
Tali partiti non si presentavano compatti, ma si dividevano in due categorie. Da un lato vi erano i partiti guidati da figure religiose tradizionali legate all’ambito tribale: il Jabha-yi nejat-e melli-yi Afghanistan (Fronte di liberazione nazionale dell’Afghanistan) di Sibghatullah Mojaeddi, vicino alla monarchia ma contrario alla sua politica di ammodernamento in ambito sociale; il Mahaz-e melli-yi islami-yi Afghanistan (Fronte nazionale islamico dell’Afghanistan) di Sayyid Ahmed Gailami, favorevole al ripristino della monarchia; ed infine l’Harakat-e enqelab-e islami-yi Afghanistan (Movimento per la rivoluzione islamica dell’Afghanistan) di Mohammed Nabi Mohammadi, formato da figure religiose tradizionaliste. A questi partiti si affiliarono, in modo episodico e soprattutto senza mai perdere la propria autonomia, reti di taleb, ovvero allievi di madrasa. Dall’altra parte vi erano i partiti islamisti, con minor seguito popolare ma certamente meglio organizzati: l’Hezb-e islami di Hekmatyar, il Jamiat-e islami di Rabbani e l’Hezb-e islami di Mohammed Yunus Khalis, nato nel 1979 dalla scissione del gruppo di Hekmatyar[10].
La dicotomia solitamente usata fra partiti tradizionalisti, caratterizzati come moderati, e partiti islamisti, riconosciuti come radicali, rischia in questo caso di essere fuorviante, dal momento che tutti i partiti di Peshawar condividevano un atteggiamento profondamente conservatore in ambito sociale. Più che il modello di società da creare, ciò che distingueva i due raggruppamenti era le modalità da adottare per crearla e lo spazio da riconoscere e dedicare alla tradizione: i partiti tradizionalisti miravano, una volta che i sovietici si fossero ritirati dal paese, a promuovere un’islamizzazione della società che avrebbe permesso all’Afghanistan di recuperare la moralità della tradizione, purificando Kabul dagli eccessi di Sayyaf ed Hekmatyar. Di contro, i partiti islamisti si proponevano come coloro che avrebbero alterato la società secondo logiche che trascendevano i rapporti di potere opponendosi alla monarchia, che ai loro occhi costituiva un ostacolo al disegno di islamizzazione ed era accusata di aver facilitato l’invasione sovietica degli anni Settanta[11].
- La figura del mujahid afgano
Fondamentale è dapprima comprendere chi è il mujahid, poiché è una figura endogena all’Afghanistan e alla sua storia, nata in una fase determinante per il paese. Il termine mujahid, forma singolare di mujaheddin, è la parola araba il cui significato letterale è “colui che è impegnato nel jihad”. La radice di mujahid è J-H-D, che significa “sforzo”, ed è la stessa radice di jihad, ovvero lotta, slancio verso un determinato obiettivo. Il mujahid identifica quindi qualcuno che è in grado di compiere uno sforzo e di intraprendere una lotta, assumendo nella cultura araba ben presto un significato religioso e militare, poiché è l’uomo che è preparato a lottare per affermare il significato, le tradizioni e la propria cultura[12]. Se, quindi, originariamente il termine si rifaceva al mondo spirituale, nell’era moderna mujahid ha assunto un significato più militare, riferendosi a colui che combatte contro l’infedele e utilizza il jihad armato come strumento per l’affermazione e l’espansione dell’Islam. Seguendo quest’accezione moderna, i primi mujaheddin sono identificabili negli appartenenti ai diversi gruppi che hanno combattuto in Afghanistan per opporsi all’invasione sovietica nel decennio 1979-1989[13].
I mujaheddin non avevano esperienza militare, né una formazione specifica e utilizzavano qualsiasi tipo di arma a disposizione. A ciò si sommavano non solo la difficoltà che il terreno montuoso comportava, in quanto il coordinamento tra le differenti fazioni ne risultava fortemente limitato, ma anche i disagi derivanti dalle differenze linguistiche e dalle tradizionali rivalità etniche. Dopo i primi anni di conflitto, i mujaheddin realizzarono la necessità di una migliore organizzazione, in modo da favorire il coordinamento delle operazioni offensive e per ricevere in modo organico gli aiuti che ricevevano dall’estero o da loro sostenitori. Tra i vari sostenitori della causa afgana vi fu Osama bin Laden, un giovane yemenita appartenente ad una famiglia facoltosa, il quale nel 1979, all’età di ventidue anni, si unì ad Abd Allah al-‘Azzam e decise di impegnarsi nella resistenza antisovietica[14].
Nel 1984 Osama creò il Maktab al-Khidmat, il suo “Ufficio dei Servizi”, con il quale convogliò in Afghanistan soldi, armi e combattenti musulmani provenienti da tutto il mondo, supportato dai governi statunitense, pachistano e saudita e con il benestare dei capi delle Aree Tribali pachistane in cambio di droga. Contemporaneamente, oltre a bin Laden, iniziava anche ad emergere sul piano politico e sul fronte opposto Ahmad Shah Massoud, il “Leone della Valle del Panjshir[15], il quale guidò almeno 10.000 mujaheddin nella resistenza antisovietica[16]. Consapevoli dell’esigenza di un miglior coordinamento, nel 1985 la maggioranza dei mujaheddin combatteva sotto l’alleanza chiamata “Unità Islamica dei Mujaheddin Afgani”, costituita da truppe e combattenti appartenenti agli eserciti dei sette principali signori della guerra[17] e per questo nota come Alleanza dei Sette Partiti. Queste nuove formazioni avevano maggiore capacità di movimento sul terreno ed erano composte principalmente da giovani, formati all’uso delle armi e, in alcuni casi, remunerati. Tali gruppi potevano godere non solo della conoscenza del territorio, la quale consentiva loro la rapidità negli spostamenti e la capacità di azione anche notturna, ma anche del sostegno della popolazione, assicurandosi supporto logistico, riparo e cibo[18].
Con la progressiva caduta dell’esercito regolare della Repubblica Democratica Afgana, nata nel 1978 e giunta al declino nel 1992, i gruppi dei mujaheddin assunsero di fatto il ruolo di unica forma di resistenza antisovietica, sostenuti dal Pakistan, Stati Uniti e Arabia Saudita, i quali avevano in comune l’interesse di contrastare l’espansione dell’URSS. I mujaheddin afgani poterono godere di un vasto supporto esterno, soprattutto dal governo di Islamabad tramite il proprio apparato di Servizi Segreti (ISI). Quest’ultimo lanciò una campagna per reclutare radicali musulmani da tutto il mondo affinché raggiungessero il Pakistan e si unissero alla lotta antisovietica al fianco dei mujaheddin afgani. I servizi segreti dei tre Paesi, CIA, ISI e Istakbarat saudita, lavorarono in stretto coordinamento fornendo armi e denaro ai guerriglieri afgani, ma soprattutto favorirono l’afflusso e l’arrivo nella regione di Peshawar di migliaia di aspiranti mujaheddin, pronti a combattere contro gli infedeli invasori[19].
Bin Laden riuscì a beneficiare di ulteriori finanziamenti per una causa largamente diffusa e condivisa nei paesi del Golfo: oltre a respingere l’invasione sovietica, obiettivo comune era la diffusione del credo wahhabita, e Azzam stesso svolse un ruolo primario di collegamento tra il mondo arabo e gli interessi del wahhabismo saudita[20]. Secondo lo studioso norvegese Hegghammer, uno dei principali esperti del fenomeno combattentistico di matrice islamica, Azzam riuscì con successo nei suoi sforzi, tra i motivi, perché aveva elaborato una dottrina ideologica secondo la quale ogni musulmano avesse il dovere di impegnarsi militarmente nelle lotte di liberazione nazionale degli altri musulmani, compiendo e realizzando il jihad globale. Inoltre, il suo messaggio ebbe una vasta risonanza poiché coincideva con la sensazione crescente nel mondo islamico che i musulmani fossero un popolo in pericolo a causa di minacce esterne[21].
Nella lotta contro l’URSS molti combatterono certamente in nome dell’Islam, ma non fu questo l’unico motivo. Alcuni mujaheddin imbracciarono le armi per cacciare l’invasore, altri perché odiavano il governo comunista insediato a Kabul; altri ancora per ragioni personali, come la vendetta per un parente assassinato. Nonostante ciò, il jihad afgano è stato una lotta per la liberazione del paese, musulmano, dal suo oppressore ateo, ed è stata una battaglia per l’affermazione delle tradizioni della società afgana. I mujaheddin erano preparati a sostenere una lunga guerra, considerata come una lotta di resistenza della volontà nazionale e il loro scopo era colpire, sopravvivere e combattere le successive battaglie, fino al passaggio del testimone ai propri figli. Ciò che frustrò i sovietici fu la capacità di questi ultimi di passare rapidamente dal campo di battaglia alla vita normale e per questo il nemico si trovò incapace di individuare il nemico. I combattenti afgani non si aspettavano di vincere la guerra, ma combattere era ciò che andava fatto, era un obbligo religioso e patriottico. Si dimostrarono resilienti e accettarono l’asimmetria tecnologica e delle perdite e, inaspettatamente per loro, arrivò il ritiro sovietico nel 1989[22].
- Bin Laden e al-Qa’ida
La genesi di al-Qa’ida è strettamente legata al contesto dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan del 1979. I mujaheddin erano supportati da organizzazioni musulmane internazionali, tra le quali il MAK che raccoglieva fondi soprattutto dal governo saudita e da singoli donatori arabi contattati da bin Laden. Il MAK, fondato nel 1984 da ‘Abdallah Yusuf ‘Azzam, studioso palestinese membro della Fratellanza Islamica, e da Osama bin Laden, nel 1986 creò una rete di basi di reclutamento anche negli Stati Uniti per raccogliere fondi e reclutare mujaheddin per combattere i sovietici e liberare l’Afghanistan[23].
All’epoca del jihad antisovietico, nessuna delle organizzazioni registrava le reclute arabe che giungevano in Pakistan e neppure si teneva il conto di uccisi o feriti. Da questa assenza di informazioni essenziali, Osama bin Laden, volontario giunto in Afghanistan per sostenere la guerra, decise di annotare i nomi di tutti coloro che transitavano per i suoi campi in quelli che oggi sono definiti i “registri di al-Qa’ida”, con l’intenzione di servirsene altrove contro nuovi infedeli, ma anche contro i governi musulmani, accusati di collusione con l’infedele. Così nasce al-Qa’ida, che significa “la base”, “le fondamenta” o “l’elenco”, con al vertice bin Laden, leader carismatico e personaggio che diede ispirazione e sostenne finanziariamente le azioni violente[24].
Proprio quando la battaglia jihadista sembrava andare per il meglio e iniziava il percorso che avrebbe portato al ritiro della compagine sovietica nel 1989, profonde fratture all’interno dello schieramento jihadista emersero; soprattutto si rese sempre più evidente il disaccordo tra ‘Abdallah ‘Azzam e una serie di attivisti conformi alle posizioni di Ayman al-Zawahiri[25]. Azzam aveva manifestato l’intenzione di voler impegnare i mujaheddin in un’azione di liberazione dei territori irredenti del dar al-islam, mentre al-Zawahiri e i suoi sostenitori spingevano per combattere il “nemico vicino”. Il risultato fu l’emergere di divergenze e contrasti in merito alle modalità di azione, agli obiettivi da colpire e alla legittimità di uccidere altri musulmani[26]. Tale frattura venne messa da parte in seguito alla morte di Azzam avvenuta il 24 novembre 1989, evento al quale seguì l’abbandono in massa di molti dei volontari che avevano abbracciato la causa del jihad afgano. Tra questi vi era anche Osama bin Laden. L’attività del movimento però non sfuggì alle agenzie di intelligence, ragione per la quale il governo sudanese decise di revocare il proprio sostegno ad Osama bin Laden. Questo allontanamento privò il movimento di al-Qa’ida e i suoi appartenenti di una base sicura e delle risorse economiche investite in quegli anni. Fu proprio in quel momento che il leader saudita decise di ritornare in Afghanistan, paese completamente stravolto che stava assistendo all’ascesa dei Talebani[27].
A seguito del ritiro tra il 1988 e il 1989 dell’allora Unione Sovietica dal paese afgano, i Talebani, gruppo di fondamentalisti islamici formatisi nelle scuole coraniche afgane e pachistane (di cui parleremo più avanti in modo approfondito), emersero come vincitori della guerra civile afgana e salirono al potere, instaurando un regime teocratico[28]. In breve tempo, il leader bin Laden creò un profondo legame con la guida del movimento talebano, il mullah ‘Omar, a cui chiese protezione. Come emerge dal 9/11 Commission Report, “l’alleanza con i Taliban garantì ad al-Qa’ida un luogo sicuro presso il quale addestrare e indottrinare guerriglieri e terroristi […] e orchestrare piani terroristici[29]“.
- I Talebani
La presenza dei soldati americani in prossimità dei luoghi sacri dell’Islam suscitò e accrebbe l’ostilità da parte di numerosi gruppi e partiti islamisti, non solo sauditi, tra i quali l’Hezb-e islami di Hekmatyar e, in Pakistan, il Jamaat-e islami. Le loro critiche portarono Riyadh a ridurre i finanziamenti destinati a questi partiti, favorendo altre formazioni politiche: in Pakistan l’Arabia Saudita avrebbe sostenuto nei primi anni novanta il Jamiat-e ulama-e islam e, attraverso le sue madrasa, avrebbe contribuito alla nascita del movimento talebano[30].
Noti al mondo come Talebani, i taleban, plurale di taleb in lingua pashtun, sono gli “studenti” di teologia nelle scuole coraniche e la loro storia è strettamente connessa ed intrecciata alla figura del mullah Mohammed ‘Omar. ‘Omar si arruolò a 19 anni, come tanti ragazzi afgani e del mondo arabo, tra le fila dei mujaheddin nella resistenza antisovietica. Era un semplice miliziano e durante la guerra, nonostante i molti atti valorosi, non diventò mai un leader, nemmeno a livello locale. Nel momento in cui i compagni gli chiesero di essere il loro capo, ‘Omar rifiutò, non sentendosi all’altezza[31], poiché alla guida dei mujaheddin vi erano uomini più anziani, più esperti e pronti all’uso delle armi e a capo di vastissimi clan o di intere etnie come i pashtun Ismail Khan e Hekmatyar, l’uzbeko Dostum e il tagiko Massoud, i “signori della guerra”[32].
Conclusa la guerra antisovietica, ‘Omar iniziò a frequentare le madrasa e solo dopo un paio d’anni diventò mullah, ovvero una figura che ha l’autorità e la competenza per insegnare i testi sacri, ma nel contempo, seppur l’URSS avrebbe dovuto cessare ogni interferenza nelle questioni di Kabul, il sostegno dei sovietici al governo afgano continuò fino all’inizio del 1992, grazie alla presenza del filocomunista Najibullah al potere. Con il crollo definitivo dell’URSS, iniziò la guerra al governo di Najibullah, la quale durò fino all’aprile del 1992, quando i mujaheddin di Massoud, Dostum e Rabbani entrarono nella capitale afgana e conquistarono il potere. Hekmatyar, acerrimo nemico di Ahmed Shah Massoud, non accettò il ruolo riconosciuto a quest’ultimo e strinse d’assedio la capitale, bombardandola giorno e notte, per settimane. Fu l’inizio della guerra civile fra i signori della guerra, e fu questo il contesto dal quale emersero i talebani sulla scena afgana[33].
È nelle madrase deobandite del nord-ovest pachistano e tra i rifugiati afgani che in quelle scuole ricevevano vitto, alloggio e un’istruzione religiosa e dogmatica, che emerse il movimento talebano. Forza religiosa e in seguito militare, i talebani non erano semplici contadini che avevano deciso di impugnare le armi contro la capitale corrotta, bensì erano studenti religiosi o profughi che non avevano mai conosciuto la vita dei campi. I valori che quindi propugnavano e sostenevano non erano altro che una rivisitazione di quelli rurali, omettendo consapevolmente l’evoluzione tecnologica e culturale, all’insegna di un medioevo retrogrado[34]. La figura del leader ‘Omar iniziò ad emergere e a essere nota, e nella primavera-estate del 1994 si aggregarono al suo gruppo moltissimi giovani, la maggior parte dei quali studiava nelle scuole coraniche. Fu per questa ragione che ‘Omar e i suoi seguaci iniziarono a farsi chiamare Talebani.
Nacque così il movimento con un preciso programma: riportare la pace in Afghanistan cacciando i signori della guerra, disarmare la popolazione e preservare l’integrità e il carattere islamico del paese insieme alle sue tradizioni. Certamente, i signori della guerra erano potenti e meglio armati, più esperti ma spaccati e divisi tra di loro da antiche e recenti rivalità e tensioni, ma i Talebani si presentavano compatti, ideologicamente motivati e, soprattutto, potevano godere dell’appoggio della popolazione[35].
La prima volta che si sentì parlare dei Talebani in Occidente fu nel novembre 1994, quando alcuni guerriglieri liberarono nei dintorni di Kandahar un convoglio di autocarri di proprietà dei servizi segreti pachistani proveniente da Quetta e diretto verso l’Asia centrale. Secondo la leggenda narrata attorno a questa vicenda, il convoglio era stato bloccato da un gruppo di banditi che chiedevano parte della merce e denaro come pedaggio. Per alcuni si sarebbe trattato, in realtà, di un tentativo da parte di milizie governative di indurre il governo di Islamabad a cessare di supportare il movimento talebano. In ogni caso, quella stessa sera i Talebani marciarono su Kandahar e la conquistarono senza incontrare resistenza. Gli “studenti” si prestavano, agli occhi degli autotrasportatori di Quetta e Chaman, in Pakistan, e di Kandahar, a facilitare i commerci con l’Iran e con l’Asia centrale, ostacolati dai posti di blocco che arricchivano i signori della guerra e i comandanti locali[36].
Con la disintegrazione dell’URSS nel 1991, si era aperta la competizione tra le potenze regionali e alla liberazione delle vie di transito verso l’Asia centrale era interessato anche il governo pachistano, sommata al fatto che nell’area caspica vennero trovati giacimenti di idrocarburi che avrebbero potuto alimentale l’industria pachistana. Imperativo di Benazir Bhutto, andata al potere in Pakistan nel 1988, fu quindi il trovare un partito pachistano che avesse accesso privilegiato al contesto afgano, e fu il Jamiat-e ulama-e islam. Il secondo passo era trovare una forza politica afgana che corrispondesse agli interessi di Islamabad ma in Afghanistan il panorama politico pashtun era troppo frammentato. Per tale ragione, tramite il Jamiat-e ulama-e islami, lo scontento dei mullah pashtun si trasformò in un movimento armato e nel 1994 il governo pachistano e l’ISI decisero di sostenere a livello logistico, con denaro e armi, i rifugiati afgani nelle madrasa. Il Pakistan fornì ai Talebani anche addestramento, munizioni e carburante, permettendo e facilitando l’avanzata degli “studenti”[37].
- – Alla conquista del paese
Dopo la presa di Kandahar, migliaia di afgani e centinaia di pachistani si unirono al primo nucleo talebano, alla cui guida vi era il mullah Mohammed ‘Omar. L’avanzata dei Talebani fu vertiginosa e fuori dalle aree pashtun venne facilitata dal continuo arrivo di volontari delle madrasa e dagli aiuti sauditi e pachistani. In poco tempo quasi tutte le provincie caddero nelle mani degli “studenti” coranici e il primo a cedere fu Hekmatyar, il quale, mentre stava bombardando Kabul, venne incalzato da sud dai Talebani, i quali conquistarono Charasyab, il suo quartier generale, e Gazni. Hekmatyar decise di darsi alla fuga assieme ai suoi seguaci, e a quel punto ‘Omar prese un’iniziativa che non solo diede fiato a Massoud, ma anche una grande popolarità ai Talebani: il mullah fece aprire tutte le strade che portano a Kabul permettendo ai convogli alimentari di raggiungere la capitale ormai stremata da mesi di blocco imposti da Hekmatyar[38]
Massoud nel contempo non si trovava in una posizione di forza: nella sua Valle del Panjshir era popolarissimo, ma non lo era altrettanto nella capitale afgana. Questa impopolarità può essere compresa alla luce del fatto che, nei quattro anni in cui occuparono Kabul, i suoi miliziani non agirono diversamente da quelli di Hekmatyar, di Dostum e di Ismail Khan, e razziarono, taglieggiarono e confiscarono case. Di fronte a ciò, Massoud tentò di trattare con i comandanti talebani Ghaus, Rabbani e Borian, i quali, su istruzione del loro leader ‘Omar, chiesero la resa del “leone del Panjshir” e le dimissioni di Rabbani, formalmente il presidente dell’Afghanistan. Massoud rifiutò e per essere più sicuro nella capitale decise di attaccare gli hazara che ne controllavano i sobborghi meridionali, ma questa si rivelò una mossa errata poiché gli hazara appoggiavano i Talebani. L’alleanza tra questi ultimi, tuttavia, durò pochissimo, poiché il capo hazara, mentre veniva trasferito a Kandahar sotto custodia talebana, precipitò con l’aereo. Probabilmente un incidente casuale, ma la comunità hazara non lo perdonerà mai ai Talebani[39].
Gli “studenti” coranici presero il posto degli hazara a sud di Kabul, trovandosi quindi alle porte della città. Massoud reagì sferrando un pesante attacco e, da grande stratega, riuscì a spingere i suoi avversari fuori dalla città, in campo aperto, e ad infliggere loro una pesante sconfitta. I Talebani erano coraggiosi certamente, pronti a morire per la loro causa, ma sapevano poco di tattica militare e l’esito negativo costò loro centinaia di combattenti. Le dodici provincie che avevano conquistato si ridussero a otto, ma le sconfitte militari furono compensate dai successi in campo politico. Ovunque riuscirono ad arrivare, i Talebani fecero ciò che avevano promesso: disarmarono la popolazione, riportarono l’ordine, riaprirono le strade al traffico e al commercio senza imporre taglie. La loro popolarità era ormai in continua ascesa[40].
Vista la difficoltà nel conquistare Kabul, i Talebani puntarono su Herat, la più antica città afgana. Ad Herat era presente Ismail Khan, gran combattente ma, come Massoud, indebolito dalla corruzione serpeggiante tra i suoi uomini, dai soprusi e dalle ingiustizie cui sottoponevano la popolazione. Giunti ad Herat, il movimento talebano portò sul posto altri 25 mila uomini e il 5 settembre del 1995 la città venne conquistata, facendo sì che Ismail Khan si rifugiasse in Iran con parte delle sue milizie. I Talebani, a quel punto, avevano sotto il loro controllo l’intera parte occidentale dell’Afghanistan[41].
Convinto che prima o poi la capitale sarebbe caduta nelle sue mani, qualche mese prima ‘Omar convocò a Kandahar più di mille mullah e ulāma per discutere del futuro dell’Afghanistan, quando questo sarebbe stato governato dai Talebani. La Shura, questo il nome della “consultazione”, si concluse senza decisioni concrete in merito al tipo di economia da adottare, ma con una concezione molto chiara e distinta della società che gli “studenti” volevano costruire, della sua etica, dei suoi valori e dei suoi costumi. È nelle parole di Wakil Muttawakil, allora semplice factotum di Omar e in seguito importante ministro degli Esteri di quello che verrà chiamato, di lì a poco, Emirato islamico di Afghanistan, che risiede la loro visione: “Noi vogliamo vivere la vita come la viveva il Profeta millequattrocento anni fa. Noi vogliamo ricreare il tempo del Profeta”[42].
Più o meno contemporaneamente, i signori della guerra, i boss locali e i rappresentanti dei partiti si riunirono per nominare un Consiglio di dieci membri avente il compito di negoziare un accordo di pace tra Massoud e Rabbani. Tuttavia, questi non realizzarono che negoziare senza i Talebani non era possibile, ma ancora meno ebbero il tempo di realizzare la presenza di questi ultimi alle porte di Kabul, e la capitale iniziò ad essere bombardata pesantemente. Prima di prendere definitivamente la città, il mullah ‘Omar e i suoi uomini occuparono la vicina città di Jalalabad nel 1996, ma la conquista della capitale era solo una questione di giorni[43].
Prima di proseguire con la cronistoria degli eventi, ritengo interessante riportare una narrazione differente rispetto a quanto si è sempre detto dei Talebani. Ahmed Rashid, storico e uno dei più importanti giornalisti pachistani, riporta che, contrariamente a quanto scritto e narrato in merito al continuo rifornimento di armi da parte dell’ISI agli “studenti” coranici durante la loro ascesa e avanzata, il movimento talebano abbia ricevuto dal Pakistan sostegno politico e diplomatico, assieme ad un sostegno nella ricostruzione di infrastrutture come la rete telefonica e radiofonica di Kandahar e il suo aeroporto mentre, per quanto riguarda le armi, i Talebani hanno dovuto guadagnarsele da soli, strappandole ai nemici. Hassan, il fraterno amico di ‘Omar, pochi giorni prima della presa di Kabul, affermò: “Non abbiamo un solo amico al mondo. Abbiamo conquistato tre quarti del Paese, abbiamo occupato la capitale e non abbiamo ricevuto nemmeno un messaggio di congratulazioni”, manifestando la loro “solitudine” contro tutti[44].
La leadership talebana, guidata dal mullah ‘Omar, non esitò a imporre editti costruiti su una lettura distorta e rigida della shari’a e duramente restrittivi per le libertà individuali, e a farli rispettare con l’uso della forza e della violenza. Fondamentale fu l’istituzione del ministero per la “Promozione della virtù e la soppressione del vizio” che, attraverso la polizia religiosa, si faceva garante dell’epurazione violenta di ogni “vizio”, attraverso dinamiche simili a quelle della Santa Inquisizione europea del XVI secolo. L’interpretazione della legge coranica proposta e imposta dai Talebani era estremamente rigida e letterale, senza distinzioni tra città e campagna. Il mullah, grazie agli aiuti sauditi e pachistani, comprò armi, mezzi e tutto ciò di cui necessitava, tra cui uomini, compresi i signori della guerra, e così, una dopo l’altra, le province afgane caddero sotto la spinta talebana, fino a raggiungere Kabul[45].
All’età di 34 anni, ‘Omar entrò a Kabul il 27 settembre 1996 con i suoi Talebani, i quali se ne impadronirono e non l’avrebbero più lasciata fino all’intervento americano del 2001. Nella sua avanzata e lungo la sua strada, il movimento guidato dal mullah ripulì l’Afghanistan dai predoni e allontanò alcuni signori della guerra, spingendoli oltre il confine, tra cui Hekmatyar e Ismail Khan, riportando l’ordine[46]. Non ci fu scampo per nessuno, in primis per Najibullah. Quest’ultimo si era rifugiato nel palazzo dell’ONU a seguito della presa di Kabul, convinto che non avrebbero osato prelevarlo da lì. Contrariamente a quanto previsto, Najibullah venne preso con la forza e ucciso senza pietà. Il suo corpo venne esposto pubblicamente in città il 28 settembre 1996. A seguito del ritiro a nord del Presidente afgano Burhanuddin Rabbani, i Talebani occuparono la sede del governo, costituendone uno nuovo composto da soli sei membri. Così nacque l’Emirato Islamico dell’Afghanistan, e gli “studenti” coranici iniziarono a esercitare il loro potere su tutto il territorio afgano, ad eccezione di piccole regioni a nord-est. In tutto ciò, il mullah ‘Omar si trasferì a Kandahar[47].
Alla fine del 1996 rimanevano solo tre aree che erano sfuggite al controllo talebano: la zona a nord-est occupata da Massoud a seguito del ritiro da Kabul, la zona dell’Hazarajat e quella attorno a Mazar-i Sharif controllata da Dostum. Quest’ultimo nel 1995 era giunto a patti con gli avversari, ma nel 1996 cambiò nuovamente alleanze e si legò a Massoud. A loro si unirono anche Rabbani, Mohammad Karim Khalili, Muhsini e Sayyaf, portando alla nascita del Fronte Unito Nazionale Islamico per la Salvezza dell’Afghanistan, anche conosciuto come Alleanza del Nord. Questo riuniva sotto la guida di Massoud tutti i partiti antitalebani ed era arroccato nel nord-est del Paese, nella provincia di Badakshan e nella Valle del Panjshir, mentre milizie alleate resistevano in alcune zone isolate a nord di Kabul, al centro e a ovest[48].
La lotta fu selvaggia e dura, ma l’Alleanza del Nord si rese conto di essere in difficoltà dinnanzi alla compattezza, alla motivazione e alla superiorità dell’avversario, e il risultato fu la caduta di Mazar-i Sharif nell’agosto 1998 e la conseguente fuga di Dostum. I Talebani, dopo essere entrati nella città, la razziarono per tre giorni e si rifecero sulla popolazione hazara. Si parla di almeno 2.000 perdite civili, mentre altre fonti ne riportano addirittura 6.000. Il Fronte Unito guidato da Massoud si spostò a nord-est e fu costretto ad arroccarsi nella Valle del Panjshir, lasciando solo piccoli presidi nelle zone in prossimità di Kabul, mentre i Talebani sferravano feroci attacchi, incuranti di quante vittime civili avrebbero lasciato lungo il loro cammino[49].
Nonostante la netta superiorità numerica dei Talebani e gli ingenti aiuti che questi ricevevano da sauditi e pachistani, che consentirono loro di controllare, alla fine degli anni Novanta, circa il 90% del territorio afgano, l’opposizione resisteva. L’Alleanza del Nord era sostenuta, dal 1996, con armi, denaro, munizioni, carburante, parti di ricambio e sostegno tecnico da diversi paesi: da Russia, Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, che temevano l’influenza islamista in Asia centrale; dalla Cina, che vedeva con poco favore le ideologie religiose dei Talebani ai confini con il Sinkiang; dall’India, che intendeva contrastare le mire pachistane verso l’Afghanistan e l’Asia centrale; dalla Turchia, desiderosa di stabilità regionale per favorire i commerci; e dall’Iran, ostile alla forza talebana e antisciita[50].
Accanto alle valide ragioni di questi paesi, preoccupati per l’instabilità regionale e per i loro interessi intaccati dal movimento guidato dal mullah ‘Omar, Massimo Fini, giornalista italiano, nel suo libro “il Mullah Omar” definisce “meno comprensibile” l’atteggiamento dei Paesi europei che parteggiavano apertamente per il “leone del Panjshir”, nonostante il fatto che i diritti umani e le donne, nelle aree controllare da Massoud e dal suo Fronte Unito, non ricevessero un trattamento diverso rispetto a quello che vigeva sotto il controllo talebano[51]. A sostegno di ciò, egli riporta ciò che una giovane donna di 25 anni, Shikeba, dichiarò al Corriere della Sera, quando, alla fine del 2001, i mujaheddin tagiki appartenenti all’Alleanza del Nord ed eredi di Massoud, stavano per riprendersi Kabul. La giovane affermò: “Ricordo ancora gli anni in cui i mujaheddin governavano a Kabul. Ricordo le bombe, i saccheggi, gli stupri. […] Sarà un altro incubo. […] Criminali come i talebani. Non credete che i mujaheddin fossero migliori”[52].
Massoud, però, aveva viaggiato, aveva coltivato rapporti internazionali ed era più colto, quindi più presentabile agli occhi degli europei rispetto a ‘Omar e al suo movimento. Due schieramenti internazionali si stavano, dunque, confrontando come un decennio prima su quello stesso scacchiere: come ha scritto Ahmed Rashid, un “nuovo grande gioco” stava prendendo forma, riportando l’Afghanistan nuovamente al centro dell’attenzione mondiale[53].
- I semi della discordia
Nonostante tutte le limitazioni applicate alla cultura moderna e occidentale presente in Afghanistan, ‘Omar non era, all’inizio della sua avventura, antioccidentale e tantomeno antiamericano, dal momento che i suoi orizzonti, le sue ambizioni e le sue conoscenze non valicavano i confini dell’Afghanistan; tutto ciò che era al di fuori gli era estraneo. In ciò il mullah si differenziava in modo netto e radicale rispetto a bin Laden, rappresentante ed esportatore del jihad universale e di una visione globalizzante del mondo. Inoltre, ‘Omar nutriva una certa simpatia verso gli americani, dal momento che questi avevano aiutato il popolo afgano a liberarsi dall’invasore sovietico. Inizialmente, quindi, i rapporti furono buoni da entrambe le parti. L’allora senatore repubblicano Hank Brown notò: “L’aspetto positivo di quanto è successo è che una delle due fazioni sembra finalmente in grado di offrire un governo stabile all’Afghanistan”, e, poche ore dopo la presa di Kabul, il portavoce del Dipartimento di Stato Glyn Davies dichiarò che gli Stati Uniti non avevano nulla da obiettare sul fatto che i Talebani avessero imposto la legge islamica, descrivendoli “antimodernisti piuttosto che antioccidentali”[54].
Agli inizi di febbraio 1997, inoltre, si recò negli Stati Uniti una delegazione talebana, la quale, a seguito della domanda se intendessero esportare il loro modello religioso e sociale al di fuori dell’Afghanistan, rispose in modo negativo, sottolineando come non fosse un caso che il loro leader, il mullah ‘Omar, non fosse mai uscito dal paese e come egli fosse completamente disinteressato a tutto ciò che accadeva altrove. L’unica richiesta avanzata dai delegati talebani fu il lasciar loro completare, in modo indisturbato e senza interferenze straniere, l’unificazione politica del paese[55].
Seguendo il discorso di Massimo Fini, il giornalista riporta nel suo libro un evento definibile “il pomo della discordia”, dal momento che i rapporti con gli statunitensi iniziarono ad incrinarsi nell’estate del 1997 in occasione della costruzione di un gasdotto che dal Turkmenistan avrebbe portato al Pakistan, e di conseguenza al mare, attraversando tutto l’Afghanistan. Iniziò ad essere evidente il fatto che il mullah avesse deciso di affidare l’affare alla Bridas argentina, diretta dall’italiano Carlo Bulgheroni, piuttosto che alla multinazionale americana Unocal, nella quale erano presenti personaggi quali Dick Cheney, Condoleezza Rice e altre personalità che di lì a poco avrebbero composto l’Amministrazione di George W. Bush, e con Hamid Karzai come consulente[56].
La scelta ricadde sulla società italo-argentina, e i motivi furono sostanzialmente due. Il primo, e di minor importanza, è legato all’atteggiamento differente che italo-argentini e americani adottavano durante le contrattazioni: i primi passavano lunghi periodi in Afghanistan e intere giornate bevendo tè con la classe dirigente afgana, assecondando i riti conviviali tipici; i secondi arrivavano, trattavano e ripartivano subito, senza “perdere” tempo, con l’ “atteggiamento arrogante” di chi era sicuro che il mullah ‘Omar non avrebbe mai osato rifiutare loro, mettersi contro la superpotenza e scegliere la piccola società Bridas. Il secondo motivo, il principale, verte sul fatto che ‘Omar aveva l’impressione che la Unocal non fosse “semplicemente” una società, ma una “dépendance” del Dipartimento di Stato e, quindi, uno strumento con cui Washington avrebbe potuto mettere mani e interferire su Kabul[57].
La reazione degli americani non tardò ad arrivare e, pur di boicottare il progetto che avrebbe portato un notevole sostegno economico all’Afghanistan, si ridussero a “corteggiare” l’Iran, il nemico degli Stati Uniti degli ultimi venti anni. Proposero a quest’ultimo un progetto alternativo: il gasdotto non sarebbe più passato per l’Afghanistan, ma attraverso il territorio iraniano per giungere in Turchia. Accanto a ciò, iniziò una serie di dichiarazioni e di articoli su tutti i media occidentali in merito alle “deplorevoli condizioni delle donne e dei diritti umani in Afghanistan, sulle quali, sino ad allora, si erano levate solo flebili e isolate voci, comunque non americane”. Accanto a ciò, iniziarono le accuse di massacri di civili, perpetrate tanto dai Talebani quanto da Massoud e dai suoi uomini, ma addebitate solamente ai guerriglieri del mullah.
Altri elementi si sommarono, tra i quali le frizioni tra l’ONU, le sue agenzie umanitarie e i Talebani in merito alla politica sessuale di questi ultimi, pesantemente discriminatoria nei confronti della donna, e tutto ciò non fece altro che alimentare sentimenti antioccidentali nel paese afgano[58]. Ad essere determinante nell’esacerbare il cambiamento nell’atteggiamento statunitense verso il regime talebano fu la minaccia terroristica di al-Qa’ida, la quale si legò a doppio filo ai Talebani nella seconda metà degli anni novanta, e ciò che accadde il 7 agosto del 1998. Non avvenne in Afghanistan, né in Asia centrale, ma a migliaia di chilometri da Kabul: due attentati alle ambasciate americane in Kenya e in Tanzania, causando 223 morti e 4000 feriti[59].
- Osama, al-Qa’ida e l’Afghanistan
Gli Stati Uniti accusarono immediatamente Osama bin Laden e la sua rete terroristica jihadista al-Qa’ida. Lo sceicco yemenita in quegli anni si trovava in Afghanistan, e le versioni in merito alla sua presenza sul territorio afgano sono due: la prima vede i Talebani estranei a ciò, dal momento che Ahmed Muttawakil affermò che “non sono stati i Talebani a portare in Afghanistan Osama bin Laden, che […] era arrivato qui prima che i Talebani si formassero. È stato Rabbani, sperando di ricevere sostegno contro le truppe di Gulbuddin Hekmatyar”[60]. L’altra versione, la più condivisa, vede invece la decisione da parte del mullah ‘Omar di ospitare il leader qaidista nel 1996, il quale era sotto pressione statunitense e fu quindi costretto a lasciare il Sudan[61].
A seguito degli attentati di Nairobi e Dar-es Salaam, Washington chiese ai Talebani di consegnare bin Laden, ma questi rifiutarono, poiché il mullah considerava Osama un “ospite del popolo afgano” e, come tale, la sua incolumità rimaneva sacra – in accordo alla legge del pashtunwali[62] – e quindi sarebbe stato giudicato solo in un paese musulmano neutrale o in Afghanistan, ma solo a patto che gli Stati Uniti avessero fornito prove adeguate in merito ad un suo coinvolgimento[63]. Tutto ciò fu considerato inaccettabile da Washington e, dinnanzi al continuo rifiuto dell’Afghanistan di consegnarlo, nel 1999 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite impose delle sanzioni economiche sul paese, mentre Clinton poco dopo diede l’ordine di bombardare i campi in cui venivano addestrati i terroristi gestiti da bin Laden nei pressi di Jalalabad e Khost; così 75 missili Cruise si abbatterono dove gli americani pensavano che il leader qaidista avesse i campi di addestramento[64].
Tuttavia, bin Laden stava diventando un problema anche per i Talebani, dal momento che gli Stati Uniti continuavano a bombardare il paese nel nord-est causando migliaia di vittime. Fu per questa ragione che, quando Clinton istituì dei contatti “segreti” col governo talebano per giungere ad una soluzione in merito alla “questione bin Laden”, questo non si tirò indietro e il mullah inviò a Washington il suo ministro degli Esteri Muttawakil per ben due volte. Il presidente americano chiese esplicitamente al rappresentante afgano di uccidere Osama bin Laden o, quantomeno, di espellerlo dal paese. Muttawakil, di contro, prima accusò gli americani di aver ucciso la gente afgana, poi affermò che il governo talebano sarebbe stato disposto a collaborare se gli Stati Uniti avessero fornito la certezza della paternità qaidista degli attacchi. Inoltre, dichiarò che loro, i Talebani, non potevano espellere Osama dal momento che quest’ultimo aveva sostenuto l’Afghanistan e il suo popolo con il proprio patrimonio. Meglio ucciderlo. Muttawakil propose quindi: “Noi vi facciamo uccidere bin Laden e voi, da ora, la smettete di bombardarci”[65]. Nonostante ciò, Clinton si tirò indietro inspiegabilmente[66].
L’ospitalità a bin Laden in Afghanistan e i rapporti che si instaurarono tra il mullah e al-Qa’ida non portarono a una fusione tra Talebani e jihadisti. I primi continuarono ad avere una visione focalizzata sul paese e sulla necessità di ripristinare la shari’a e l’ordine e riportare i pashtun al centro del potere; i secondi, d’altro canto, condividevano una visione globale: per loro l’Afghanistan era una base nella quale pianificare attacchi che rovesciassero l’ordine mondiale, non un fine ultimo[67]. I rapporti tra i due movimenti divennero più stretti e profondi solo verso la fine degli anni Novanta, quando i Talebani accettarono di buon grado non solo l’influenza economica di al-Qa’ida, ma anche quella politica, ideologica e culturale, portando il movimento talebano a compiere azioni quali la distruzione delle famose statue di Buddha a Bamiyan, nell’Hazarajat[68].
Fu invece l’organizzazione qaidista ad organizzare e a portare a termine l’assassinio di Massoud, ucciso da due sicari di bin Laden. Spacciatisi per due giornalisti di una televisione marocchina e riusciti a ottenere un’intervista con il famoso mujahid, questi fecero esplodere una bomba nascosta nella telecamera e il “leone del Panjshir” perse la vita a 48 anni il 9 settembre 2001. L’obiettivo probabilmente era preparare il terreno per la conquista talebana del nord-est afgano, eliminando l’unico personaggio in grado di tenere unito il Fronte. Non è nemmeno da escludere che la rete qaidista, “facendo un favore” ai Talebani, volesse rinsaldare i legami con il mullah ‘Omar alla vigilia degli attentati dell’11 settembre, che avrebbero con molte probabilità esposto l’Emirato alla furia statunitense. In effetti, il prezzo pagato dai Talebani sarebbe stato altissimo: la conseguente rappresaglia americana avrebbe consentito all’Alleanza del Nord di occupare in poche settimane le posizioni perdute, obbligando i Talebani a ritirarsi nel sud, sud-est e nelle aree pachistane di confine[69].
- Verso Enduring Freedom
Già nel dicembre 1999 il Consiglio di Sicurezza dichiarò che avrebbe adottato sanzioni contro il governo talebano se questo non avesse interrotto il suo sostegno agli atti di terrorismo internazionale e il 19 gennaio 2001 venne approvata la risoluzione Onu 1333 con la quale, oltre alle sanzioni, si affermava che “l’Afghanistan è il centro mondiale del terrorismo internazionale”, chiedendo inoltre l’estradizione di bin Laden. I Talebani contestarono la risoluzione e protestarono poiché il Consiglio di Sicurezza non aveva emesso invece alcun bando per quanto concerneva le armi che continuavano ad arrivare per l’Alleanza del Nord da parte della Russia e dell’Iran. Tuttavia, non furono ascoltati perché il loro non era considerato un governo legittimo[70]. Alla fine del mese di giugno 2001 l’ambasciatore americano presso Islamabad avvertì il mullah che, nel caso in cui le informazioni di intelligence su un imminente attacco contro gli Stati Uniti da parte di al-Qa’ida si fossero rivelate corrette, i Talebani sarebbero stati ritenuti responsabili e ne avrebbero pagato il prezzo[71].
La mattina dell’11 settembre 2001, valendosi di 19 terroristi, al-Qa’ida mise a segno due attentati, a pochi minuti di distanza, contro le torri del World Trade Center a New York, seguiti da un terzo contro il Pentagono e da un altro che non andò a buon fine. Mentre le folle di tutti i paesi del mondo arabo scesero nelle piazze per manifestare la loro gioia, il governo talebano emanò un comunicato ufficiale: “Nel nome di Allah, della grazia e della compassione, noi condanniamo fortemente i fatti che sono avvenuti negli Stati Uniti […]. Condividiamo il dolore di tutti coloro che hanno perso i loro familiari e i loro cari in questi incidenti. Tutti i responsabili devono essere assicurati alla giustizia. Noi vogliamo che l’America sia paziente e prudente nelle sue azioni”[72].
George W. Bush puntò il dito contro Osama bin Laden e i Talebani e intimò al mullah ‘Omar di consegnare il Califfo saudita agli Stati Uniti, ma questo rifiutò, chiedendo prove reali della sua colpevolezza. Nel contempo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non ritenne che fossero presenti i presupposti per un intervento armato; pertanto, gli Stati Uniti invocarono l’articolo 51 della Carta fondante l’Organizzazione, il quale prevedeva l’uso della forza davanti ad una minaccia collettiva. In realtà, non ci fu una dichiarazione di guerra, dal momento che i Talebani non erano considerati uno Stato, bensì un’organizzazione terroristica. Il 7 ottobre 2001, dopo nemmeno un mese dagli attentati, si attivò un’operazione militare condotta da Stati Uniti e Gran Bretagna, con il sostegno del Pakistan, il quale fornì l’uso di basi aeree, in supporto alle milizie antitalebane e all’Alleanza del Nord. A fine mese partì un altro ciclo di bombardamenti: l’Operazione Enduring Freedom (OEF) era iniziata[73].
Il mullah ‘Omar non si aspettava un’invasione americana, pertanto non aveva approntato alcuna difesa e i Talebani si trovarono in una situazione militarmente insostenibile. L’OEF perseguiva due obiettivi principalmente: smantellare le basi di al-Qa’ida e rovesciare il regime talebano. Il secondo proposito si realizzò nel giro di poche settimane, poiché i bombardamenti aerei dell’aviazione statunitense e britannica e il sostegno logistico delle truppe speciali permisero al Fronte Unito di conquistare Mazar-i Sharif, Herat e Kabul. Nel dicembre 2001 cadde nelle mani dei mujaheddin anche Kandahar, la roccaforte dei Talebani. La disfatta del movimento talebano vide combattimenti limitati, dal momento che molti comandanti e khan locali deposero le armi dopo essere stati comprati dal Fronte, mentre la maggioranza dei Talebani e al-Qa’ida si dileguò nel nulla. Non si può parlare di una vera e propria disfatta militare, poiché gli “studenti” attuarono un ripiegamento strategico, dal momento che, resisi conto di non poter resistere, essi tornarono nelle aree dalle quali erano emersi, riassorbiti nei villaggi di origine nel sud e sud-est afgano o nelle aree tribali pachistane[74].
In seguito alla ritirata dei Talebani, l’Afghanistan rimase con un instabile vuoto di potere e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU dichiarò che la comunità internazionale si sarebbe adoperata per sostituire il regime talebano con un governo democratico. In quest’ottica, a fine novembre, venne indetta una conferenza a Bonn dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite allo scopo di delineare una soluzione che sarebbe stata accettabile dai vari leader afgani. Nel contempo, il 20 dicembre si adottò la Risoluzione 1386, attraverso la quale veniva autorizzata la costituzione di una forza di sicurezza: l’International Security Assistance Force (ISAF). Il 23 dicembre 2001, a seguito della conferenza di Bonn, venne insediato il governo ad interim presieduto da Hamid Karzai, mentre il mullah ‘Omar si diede alla fuga a 38 anni[75].
A partire dal 2002 iniziò a vedersi, soprattutto nella capitale, l’impatto della ricostruzione e dell’assistenza umanitaria: le scuole furono riaperte, ebbe inizio la costruzione di nuove strutture, la riorganizzazione dell’esercito e cominciò la riabilitazione del sistema giudiziario, quest’ultimo coordinato e finanziato dall’Italia. Tuttavia, i miglioramenti procedevano a rilento, e un ostacolo non indifferente era rappresentato dalla debolezza del governo centrale, non in grado di controllare l’intero paese. Inoltre, nella fase iniziale di OEF, gli Stati Uniti sostennero alcuni signori della guerra con lo scopo di ottenere informazioni sui Talebani e al-Qa’ida. Questa strategia fu però abbandonata quando divenne evidente che per consolidare il governo necessario era fondamentale indebolire i signori della guerra tramite il disarmo e la smobilitazione delle loro milizie, obiettivo che venne raggiunto solo in parte[76].
Accanto a tale situazione, sempre a partire dal 2002, terminate le fasi più concitate della guerra contro i Talebani, il popolo afgano subì una specie di “iniezione di progresso”, ma i limiti della democratizzazione afgana divennero ben presto evidenti. L’edificio istituzionale costruito e imposto “dall’alto” e sulla base del modello occidentale, rimase debole, il governo centrale veniva infatti percepito come un “prodotto di interessi allogeni” e in Parlamento finirono per sedere signori della guerra ed ex mujaheddin che si erano macchiati di gravi reati[77].
- Il ritorno dei Talebani
Mentre tutta l’attenzione era concentrata su Kabul, il mullah ‘Omar cominciò nuovamente a tessere la sua tela, nascosto da qualche parte, dovendo nel contempo affrontare la perdita di prestigio che seguì la sconfitta e la solitudine, poiché molti dei suoi compagni erano morti o prigionieri. Nonostante ciò, ‘Omar poté contare sull’appoggio fornitogli dalla provincia di Urozgan, una delle regioni rimaste talebane e in cui l’Alleanza del Nord non riuscì ad arrivare. Riuscì inoltre a mettersi in contatto con Hekmatyar, unico dei signori della guerra ad essere rimasto fuori dal nuovo assetto di potere – a differenza di Dostum e Ismail Khan -, con il vecchio alleato Haqqani, legame importante e non privo di conseguenze, come vedremo più avanti, e con Pacha Khan, capo della tribù più numerosa nella zona di Khost[78].
L’aiuto decisivo, tuttavia, gli fu fornito tra il 2002 e il 2003 proprio dagli avversari, dagli Stati Uniti, per due ragioni. Anzitutto, la popolazione afgana che aveva accolto gli invasori occidentali, se non con entusiasmo, almeno con rassegnazione, iniziò a covare odio verso di loro, e questo a causa di una serie di “incidenti” da parte degli Stati Uniti. Gli uomini di Bush sul campo si comportavano con una violenza inaudita e con indifferenza verso le vite dei locali. Nel marzo 2002, per espugnare l’ultima ridotta talebana a Gardez bombardarono a tappeto il luogo, uccidendo “alcune donne e dei bambini”, mancando per altro l’obiettivo. Nel dicembre 2003, per colpire un uomo nei pressi di Ghazni, bombardarono nuovamente, centrando il bersaglio ma lasciando a terra 9 bambini e un altro uomo innocente. L’odio nato a seguito di tali avvenimenti andò a sommarsi all’orgoglio nazionale degli afgani, i quali non hanno mai tollerato troppo a lungo la presenza dello straniero[79].
Il secondo elemento che permise ai Talebani di riguadagnare terreno senza dover ingaggiare vere e proprie battaglie fu l’operazione in Iraq nel 2003. Gli Stati Uniti attaccarono il paese di Saddam Husayn, sebbene quest’ultimo non avesse nulla a che fare con gli attentati dell’11 settembre 2001 e non possedesse armi di distruzione di massa, come dichiararono invece gli uomini del governo americano. La distrazione delle truppe statunitensi, ingaggiate su un altro fronte, in una fase cruciale per la stabilizzazione dell’Afghanistan, permise ai vertici del movimento talebano di riorganizzarsi, di intrecciare legami con elementi dell’opposizione antigovernativa e di pianificare le operazioni di guerriglia. Nel giro di pochi anni i Talebani riuscirono a controllare il 45% del paese, ampi tratti del sud e del sud-est, isolando quelle aree dal resto del paese e dai tentativi di state-building che erano in corso, nonostante la presenza di Enduring Freedom e di ISAF, passata nel 2003 sotto il comando NATO[80].
Dinnanzi all’incremento della guerriglia e all’impreparazione di ISAF, la NATO si vide obbligata a rivedere la propria strategia: dal 2006 cercò di implementare una più stretta collaborazione con OEF e i contingenti della forza multinazionale furono rafforzati. Nonostante ciò, molte aree, una volta “liberate”, venivano abbandonate e lasciate alla riconquista talebana, dal momento che le forze ISAF continuavano a non avere sufficienti uomini e mezzi. L’incapacità di mantenere i territori liberati andò a favorire l’insurrezione talebana, sommata all’alleanza del movimento con Hekmatyar, il quale permise ai Talebani di estendere la guerriglia al nord, così come la collaborazione con il clan Haqqani consentì di allargarla verso sud-est[81].
Nel contempo, i Talebani e la rete Haqqani mantenevano legami, non si sa quanto forti, con al-Qa’ida. Nonostante una serie di operazioni condotte da OEF subito dopo gli attentati del 2001, le milizie qaidiste continuarono ad attuare operazioni di disturbo nelle aree orientali dell’Afghanistan, mentre di bin Laden si era persa ogni traccia. Nel 2004 il militante giordano Abu Musab al-Zarqawi, il quale negli anni Ottanta militò al fianco dei mujaheddin, iniziò a guidare al-Qa’ida in Iraq (AQI), branca di al-Qa’ida, mettendo a segno però attentati contro la popolazione sciita irachena, discostandosi quindi dagli obiettivi e dalle modalità operative dei vertici del movimento qaidista. Questo indebolì il nucleo originale di al-Qa’ida, preparando il terreno per il crescente radicamento a Nangarhar e nei suoi dintorni, dopo il 2014, di IS-K, ovvero lo Stato Islamico nel Khorasan, una branca di IS attiva in Asia meridionale e centrale[82].
Le operazioni militari continuarono negli anni, ma nel 2009 i Talebani erano presenti in quasi tutte le province afgane e su ampi tratti del territorio avevano istituito un’amministrazione parallela, con giudici, governatori e addirittura forze di polizia, e gli analisti più accreditati hanno dichiarato che nel 2008 essi controllavano già oltre il 70% del territorio. Inoltre, il disinteresse dell’opinione pubblica del popolo americano verso l’Afghanistan raggiunse il picco, con oltre metà degli statunitensi che invocavano il ritiro dal paese. Non solo si riteneva che quella afgana fosse una guerra priva di senso, ma risultava anche evidente la difficoltà nella democratizzazione del paese. Fu con questi sentimenti che Barack Obama presentò una via d’uscita nel dicembre 2009, annunciando che 30.000 nuovi soldati americani sarebbero stati inviati sul fronte afgano per liberare il paese dalla guerriglia talebana e per addestrare le forze di sicurezza afgane in modo da trasferire loro progressivamente la responsabilità sul campo[83].
Il presidente degli Stati Uniti, in linea con la posizione del vicepresidente Biden e dell’ala democratica, indicava un orizzonte temporale entro il quale compiere e realizzare il disimpegno militare americano, il 2011, mentre il ridotto contingente che sarebbe rimasto in Afghanistan si sarebbe dedicato al supporto e all’addestramento dell’esercito afgano. La decisione statunitense del ritiro ottenne nuovi consensi e venne rinvigorita quando, sempre nel 2011, bin Laden fu ucciso dalle forze speciali statunitensi ad Abbottabad, nei pressi di Islamabad. Tuttavia, fu proprio in quell’anno che, parallelamente all’avvio del disimpegno americano, la situazione in Afghanistan iniziò a precipitare[84].
L’offensiva dei Talebani riprese vigore, causando un numero sempre maggiore di vittime tra i civili e le forze di sicurezza afgane, e anche quest’ultime aumentarono i loro attacchi contro le truppe ISAF, frutto di una graduale infiltrazione talebana all’interno di esse e della polizia. Ora che si andava delineando il ritiro dei contingenti internazionali, l’avanzata dei Talebani riprendeva forza e i militanti che avevano deposto le armi ed erano stati integrati nell’apparato di sicurezza reindirizzavano la propria lealtà, ritornando a far prevalere i legami clanico-tribali ed etnici. La presenza delle truppe straniere comunque diminuiva, passando da oltre 85.000 uomini nell’aprile 2013 ai 65.000 nel settembre dello stesso anno[85]. All’inizio del 2015, inoltre, la missione ISAF fu sostituita da Resolute Support, la quale aveva il limitato compito di fornire addestramento, assistenza e consulenza all’esercito nazionale afgano. Rimaneva, quindi, un contingente internazionale nel paese ma con funzioni no combat[86].
Dinnanzi a tali cambiamenti, il governo afgano prese coscienza del futuro abbandono a sé stesso, e ciò indusse gli uomini politici e signori della guerra che avevano sostenuto il governo a considerare la possibilità di saltare sul carro dei vincitori (bandwagoning) prima che fosse troppo tardi. I Talebani, dal canto loro, vedendo la fine dell’occupazione, intensificarono le offensive e, approfittando del crescente disimpegno dei contingenti internazionali, riuscirono negli anni successivi a estendere le aree sotto il proprio controllo includendo nuove province, anche nel nord del paese. Divenne cruciale per loro, in questa fase, tenere insieme le diverse fazioni e i “fronti” autonomi, ma la morte del mullah ‘Omar nel 2013 accentuò le lotte di potere endogene al movimento. Nel 2015 venne nominato alla guida dei Talebani Akhtar Mansur, il quale cercò inutilmente di centralizzare e “unificare” il movimento. Quando anche Mansur venne a mancare nel 2016, ucciso da un drone, venne eletto al suo posto Hibatullah Akhundzada, al quale, per facilitare un compromesso tra le componenti più importanti del movimento, si decise di affiancare Yaqub, uno dei figli del mullah ’Omar, e Serajuddin Haqqani[87], leader della rete omonima e uno dei protagonisti di ciò che sarebbe avvenuto nel 2021.
[1] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, Carocci Editore, Roma, 2021, p. 55.
[2] Mitrokhin Vasili, The KGB in Afghanistan, Woodrow Wilson International Center for Scholars, Washington DC, 2002, p.20.
[3] La rottura definitiva avvenne nel 1967, quando il partito si divise in due raggruppamenti, il Parcham (“Bandiera”) guidato da Karmal, e il Khalq (“Popolo”) guidato da Taraki, sviluppando proprie strutture separate.
Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit. pp. 55-57.
[4] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 57.
[5] Abul A’la Maududi, teologo, politico e filosofo pachistano, è considerato uno fra i più importanti pensatori musulmani del ventesimo secolo. Figura politica di spicco nella sua terra natale, egli fondò il partito politico chiamato Jamaat-e-Islami. La dottrina politica di Maududi sosteneva essenzialmente che un governo islamico dovesse accettare la supremazia della shari’a, la quale deve compenetrare ogni aspetto della vita politica e religiosa. Inoltre, egli asseriva che la democrazia islamica fosse antitetica rispetto al concetto occidentale di democrazia.
- VV., Abū al-Aʿlā al-Mawdūdī, Abu al-A’la al-Mawdudi | Biography, History, & Facts | Britannica
[6] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., pp. 57-58.
[7] Il sufismo è una corrente più “morbida” dell’Islam. Esso si presenta come un insieme di metodi e dottrine che tendono all’approfondimento interiore delle pratiche e dei dati religiosi, in modo da evitare il rischio di irrigidimento della fede e di un letteralismo arido e legalistico.
Enciclopedia Treccani, sufismo, sufismo nell’Enciclopedia Treccani
[8] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., pp. 58-59.
[9] Cooley John K., Una guerra empia: La CIA e l’estremismo islamico, Elèuthera, Milano, 1999, pp. 209.
[10] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., pp. 83-84.
[11] Ibidem, pp. 84-86.
[12] Gen. B. (ris) dr. Termentini Fernando, Insurrezionalismo e terrorismo – il problema del banditismo in Afghanistan, difesa.it, 2006., p. 16.
[13] Centro alti studi per la difesa istituto alti studi per la difesa, Dal mujahidismo ai foreign fighters. Dinamiche, profili, attori e modelli organizzativi del combattentismo tra il XX e XXI secolo, difesa.it, 2016, p. 5.
[14] Centro alti studi per la difesa istituto alti studi per la difesa, Dal mujahidismo ai foreign fighters… op. cit., pp. 5-6.
[15] La Valle del Panjshir è una piccolissima valle appena a nord-est da Kabul, ha avuto e ha tuttora un ruolo fondamentale negli eventi del 2021.
Giuliani Federico, Che cos’è la Valle del Panjshir e perché è così importante, insideover.com, 4 settembre 2021, Che cos’è la valle del Panjshir e perché è così importante (insideover.com)
[16] Gen. B. (ris) dr. Termentini Fernando, Insurrezionalismo e terrorismo – il problema del banditismo in Afghanistan, op. cit., p. 16.
[17] Il termine “signori della guerra” è stato utilizzato negli anni ’90 per indicare le figure che hanno guidato e comandato brigate, fazioni o singoli gruppi di combattenti. Probabilmente, il più noto tra i signori della guerra è Hekmatyar, il fondatore del Partito Islamico e colui che ha dato un forte impulso ai mujaheddin durante la guerra contro l’URSS è noto anche come “il macellaio di Kabul”. Oltre a Hekmatyar vi sono anche Ismail Khan, un altro noto signore della guerra conosciuto come il “leone di Herat”, e Abdul Rashim Dostum, il quale ha guidato negli anni ’90 interi battaglioni nelle proprie roccaforti del nord dell’Afghanistan. Infine, nell’ultimo ventennio sono emersi altri signori della guerra nel contesto politico afgano, come il tagiko Mohammed Fahim e gli uomini della famiglia Haqqani, legata a doppio filo ad al-Qa’ida.
Indelicato Mauro, Chi sono i signori della guerra che controllano i destini dell’Afghanistan, insideover.com, 15 settembre 2021, Chi sono i signori della guerra che controllano i destini dell’Afghanistan (insideover.com)
[18] Centro alti studi per la difesa istituto alti studi per la difesa, Dal mujahidismo ai foreign fighters… op. cit., p. 6.
[19] Ibidem, pp. 6-7
[20] Centro alti studi per la difesa istituto alti studi per la difesa, Dal mujahidismo ai foreign fighters… op. cit., p. 7.
[21] Hegghammer Thomas, The origins of Global Jihad: Explaining the Arab Mobilization to 1980s Afghanistan Policy, Memo, Belfer Center for Science and International Affairs, Harvard University, 22 gennaio 2009.
[22] Centro alti studi per la difesa istituto alti studi per la difesa, Dal mujahidismo ai foreign fighters… op. cit., pp. 14-15.
[23] Severin Valentina, al-Qaeda, dalla sua creazione alla morte di bin Laden, frontierenews.it, 3 maggio 2011, Al-Qaeda, dalla sua creazione alla morte di bin Laden – Frontiere News
[24] Intervista di Loretta Napoleoni al dottor Saad al-Faqih contenuta in Napoleoni Loretta, Terrorismo S.p.A., Il Saggiatore, 2008, p. 205.
[25] Ayman al-Zawahiri è un terrorista egiziano; si unisce durante gli anni ’80 ai mujahidin per combattere i sovietici che occupano l’Afghanistan ma è solo nel 1987 che incontra Osama bin Laden. Dal 16 giugno 2011 è ufficialmente il capo del gruppo di al-Qa’ida in seguito alla morte di bin Laden.
Approfondimento tratto da CNN Library online, Ayman al-Zawahiri Fast Facts, 10.06.2017, Ayman al-Zawahiri Fast Facts – CNN
[26] Gerges Fawaz, The Far Enemy. Why Jihad Went Global, Cambridge University Press, Cambridge, 2005.
[27] Plebani Andrea, Jihadismo globale – strategie del terrore tra Oriente e Occidente, Giunti Editore, Milano, 2016, p. 53-54.
[28] Enciclopedia Treccani, Talebani, Talebani nell’Enciclopedia Treccani
[29] The 9/11 Commission Report 2004, The 9/11 Commission Report (9-11commission.gov), p. 66-67.
[30] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 94.
[31] Zaeef Abdul Salam, My life with the Taliban, Felix Kuehn, Alex Strick Linschoten, 2010, pp. 63-64.
[32] Fini Massimo, Il Mullah Omar, Marsilio Editori, Venezia, pp. 12-13.
[33] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., pp. 95-99.
[34] Battisti Giorgio, Saini Fasanotti Federica, Storia militare dell’Afghanistan: dall’impero dei Durrani alla Resolute Support Mission, Mursia Editore, 2014, p. 95.
[35] Fini Massimo, Il Mullah Omar, op. cit., p. 17.
[36] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 101.
[37] Ibidem, pp. 101-102.
[38] Rashid Ahmed, Talebani. Islam, petrolio e il grande scontro in Asia centrale, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 53.
[39] Ibidem, p. 54.
[40] Fini Massimo, Il Mullah Omar, Marsilio Editori, Venezia, p. 19.
[41] Ibidem, p. 20.
[42] Rashid Ahmed, Talebani. Islam, petrolio e il grande scontro in Asia centrale, op. cit., p. 63.
[43] Fini Massimo, Il Mullah Omar, op. cit., p. 21.
[44] Rashid Ahmed, Talebani. Islam, petrolio e il grande scontro in Asia centrale, op. cit., p. 75.
[45] Battisti Giorgio, Saini Fasanotti Federica, Storia militare dell’Afghanistan, op. cit., p. 96.
[46] Fini Massimo, Il Mullah Omar, op. cit., p. 22.
[47] Battisti Giorgio, Saini Fasanotti Federica, Storia militare dell’Afghanistan, op. cit., p. 96.
[48] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 104.
[49] Battisti Giorgio, Saini Fasanotti Federica, Storia militare dell’Afghanistan, op. cit., p. 97.
[50] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 104.
[51] Fini Massimo, Il Mullah Omar, op. cit., p. 23.
[52] Servizio di Maria Grazia Cutuli in “Corriere della Sera”, 14 novembre 2001. La giornalista italiana verrà uccisa pochi giorni dopo da una banda composta da sei uomini armati, il 19 novembre 2001, a metà strada tra Jalalabad e Kabul.
Fini Massimo, Il Mullah Omar, op. cit., p. 24.
[53] Battisti Giorgio, Saini Fasanotti Federica, Storia militare dell’Afghanistan, op. cit., p. 97.
[54] Fini Massimo, Il Mullah Omar, op. cit., p. 38.
[55] Ibidem, p. 39.
[56] Idem.
[57] Ibidem, pp. 39-40.
[58] Ibidem, pp. 45-48.
[59] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 111.
[60] Fini Massimo, Il Mullah Omar, op. cit., p. 48.
[61] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 111.
[62] Il pashtunwali, “via dei pashtun”, è il codice d’onore degli afgani che si basa su alcuni elementi fondamentali che vanno seguiti: l’onore, la vendetta e l’ospitalità.
Battisti Giorgio, Saini Fasanotti Federica, Storia militare dell’Afghanistan, op. cit., pp. 26-27.
[63] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 111.
[64] Battisti Giorgio, Saini Fasanotti Federica, Storia militare dell’Afghanistan, op. cit., p. 98.
[65] Documento del Dipartimento di Stato, agosto 2005, contenuto in Fini Massimo, Il Mullah Omar, op. cit., p. 50.
[66] Fini Massimo, Il Mullah Omar, op. cit., pp. 49-50.
[67] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 113.
[68] Battisti Giorgio, Saini Fasanotti Federica, Storia militare dell’Afghanistan, op. cit., p. 99.
[69] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., pp. 113-114.
[70] Fini Massimo, Il Mullah Omar, op. cit., pp. 54-55.
[71] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 115.
[72] Fini Massimo, Il Mullah Omar, op. cit., p. 59.
[73] Battisti Giorgio, Saini Fasanotti Federica, Storia militare dell’Afghanistan, op. cit., pp. 100-101.
[74] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., pp. 115-116.
[75] Battisti Giorgio, Saini Fasanotti Federica, Storia militare dell’Afghanistan, op. cit., pp. 108-109.
[76] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., pp. 119-120.
[77] Ibidem, pp. 120-124.
[78] Fini Massimo, Il Mullah Omar, op. cit., p. 87.
[79] Ibidem, pp. 88-89.
[80] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 125.
[81] Battisti Giorgio, Saini Fasanotti Federica, Storia militare dell’Afghanistan, op. cit., pp. 130-131.
[82] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., pp. 127-128.
[83] Battisti Giorgio, Saini Fasanotti Federica, Storia militare dell’Afghanistan, op. cit., pp. 146-147.
[84] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 132.
[85] Battisti Giorgio, Saini Fasanotti Federica, Storia militare dell’Afghanistan, op. cit., p. 165.
[86] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., pp. 132-133.
[87] Fini Massimo, Il Mullah Omar, op. cit., pp. 133-134.