Scarica il file in PDF – Afghanistan II – giugno 2022 – de lellis
La rinascita dell’Emirato talebano
Parte II: dagli accordi di Doha ad oggi
Arianna De Lellis
Negli anni Novanta, in un Afghanistan dilaniato dalla guerra nata nel 1979 dopo l’invasione sovietica, si affamarono i Talebani, “studenti” coranici nati nelle madrasa pachistane e caratterizzati per un’interpretazione rigida del messaggio di Maometto. Nell’articolo precedente[1] si è analizzato il contesto dal quale questi emersero, strettamente legato al movimento islamista afgano e delineatosi all’interno dello spazio universitario degli anni Sessanta e Settanta. Gruppi di matrice islamista iniziarono ad opporsi alle riforme “empie” ed occidentali proposte dal partito di stampo sovietico presente nel paese. Solamente una lettura rigida e letterale del Corano, accompagnata della shari’a nella vita quotidiana, pubblica e privata, avrebbe ridato, secondo tali movimenti, autenticità alla religione islamica.
L’invasione dell’URSS del 1979 rappresentò il catalizzatore per queste realtà e si mobilitò ben presto la resistenza antisovietica, della quale attori fondamentali furono i mujaheddin, i “combattenti” impegnati nel jihad e figure endogene dell’Afghanistan, supportati nell’organizzazione dal giovane Osama bin Laden con il suo Maktab al-Khidmat e dal sostegno finanziario e logistico di Stati Uniti, Arabia Saudita e Pakistan. A seguito del ritiro dell’Unione Sovietica dal paese nel 1989 e del crollo di questa alla fine del 1991, la guerra civile fra i signori della guerra assediò l’Afghanistan, portando i mujaheddin al potere e lasciando spazio al movimento talebano, il quale nel 1996 risultò vincitore sul piano politico e salì al governo, instaurando un regime teocratico.
Il movimento talebano rimase in carica fino al 2001, poiché, a seguito degli attentati contro le Torri Gemelle di New York e contro il Pentagono, gli Stati Uniti e Gran Bretagna avviarono l’operazione Enduring Freedon, volta ad eliminare la minaccia qaidista. L’Afghanistan e i Talebani furono considerati colpevole delle azioni di Osama bin Laden e subirono ingenti bombardamenti aerei. Terminata la fase più “concitata” della guerra ai Talebani, l’Occidente stabilì un edificio istituzionale imposto “dall’alto” e su modello occidentale, il quale risultò nel tempo debole e esogeno all’Afghanistan. Iniziò a mobilitarsi nuovamente il movimento talebano, il quale, sfruttando il vuoto di interesse causato nelle opinioni pubbliche occidentali dal protrarsi dei combattimenti e dalla nuova operazione militare in Iraq nel 2003, nonché il conseguente crescente desiderio di disimpegno negli anni annunciato dagli Stati Uniti, cominciò pian piano a recuperare terreno all’interno di un paese ove la fame e la guerriglia non erano mai venuti meno. Possiamo dire che questo lento processo si è concluso con gli Accordi di Doha.
- Gli accordi di Doha
Nei primi mesi del 2018, in Afghanistan, si registrarono due tendenze rilevanti. La prima riguardò un lieve aumento delle vittime civili, mentre la seconda riguardò l’apertura di una finestra di dialogo diplomatico. Nei primi sei mesi del 2018, secondo i dati dell’ufficio Onu a Kabul, ogni giorno morivano 9 civili, mentre 19 erano i feriti[2]. Contemporaneamente, il presidente afgano Ashraf Ghani, salito al potere nel settembre 2014, il 28 febbraio 2018 annunciò a sorpresa una coraggiosa iniziativa, rivolgendo pubblicamente ai Talebani una generosa proposta: Ghani offriva loro il riconoscimento come partito politico, garantiva implicitamente l’immunità, la possibilità di rivedere la Costituzione, un ufficio politico a Kabul e, per la prima volta, l’ipotesi di un cessate il fuoco. I Talebani non risposero ufficialmente alla proposta del presidente ma, tramite i loro social network, pubblicarono alcuni articoli con i quali lasciarono intendere di essere pronti a negoziare, ma solo con Washington[3].
Alla fine del 2018 il tentativo di ricomporre la frattura tra Kabul e i Talebani era sostanzialmente fallito, scalfito e intaccato dal progressivo disimpegno dei contingenti internazionali, dalla diffidenza di Ghani nei confronti delle ingerenze pachistane e verso le intenzioni talebane, e dall’intransigenza degli “studenti” e della rete Haqqani, i quali consideravano il presidente afgano un burattino nelle mani dell’Occidente e chiedevano, come prerequisito per il dialogo, il ritiro delle truppe straniere. La posizione di Kabul risultò, tra l’altro, indebolita dai negoziati tra l’inviato statunitense per la riconciliazione Zalmay Khalilzad e i Talebani, i quali ebbero luogo a Doha tra la seconda metà del 2018 e l’inizio del 2020. I negoziati furono facilitati dal Qatar e dal Pakistan, che svolse un fondamentale ruolo di mediazione[4].
Il 29 febbraio 2020, dopo 19 anni di guerra e mesi di negoziati, Mike Pompeo, il Segretario di Stato statunitense, rappresentante dell’amministrazione Trump, e il mullah Abdul Ghani Baradar, rappresentante della delegazione politica dei Talebani, sottoscrissero un accordo bilaterale, senza che il governo afgano fosse coinvolto nella definizione dei suoi termini. Il presidente Trump forzò la mano rispetto alle precedenti amministrazioni, poiché la riluttanza dei Talebani a negoziare con i rappresentanti istituzionali afgani convinse l’amministrazione statunitense che l’unica strada percorribile fosse il dialogo bilaterale. L’accordo prevedeva il ritiro delle truppe straniere dal paese fissato per la fine di aprile 2021, la principale e più importante rivendicazione dei Talebani, e l’impegno di questi ultimi a rinunciare a ogni legame con il jihadismo transnazionale, oltre che a combattere contro la branca locale di IS. Gli Stati Uniti mantenevano, a ogni modo, la facoltà di modificare il calendario del ritiro e di aiutare le forze afgane in caso di necessità[5].
L’accordo, tuttavia, era certamente “imperfetto”, dato che, nella sua versione scritta, questo prevedeva che i Talebani fornissero “un chiaro segnale” a coloro che costituivano una minaccia per gli Stati Uniti e i suoi alleati, poiché a essi non si sarebbe offerta assistenza di alcun tipo, ma non veniva specificato in cosa dovesse consistere il “chiaro segnale”. Inoltre, l’accordo non condizionava alla cessazione di violenze contro i civili e non prevedeva alcuna forza di controterrorismo in Afghanistan. Insomma, i Talebani vincevano su tutta la linea, considerando che esercitavano già il controllo da diversi anni su circa metà del paese e forti della consapevolezza che gli Stati Uniti volevano andarsene ad ogni costo[6].
L’accordo prevedeva che, entro 10 giorni dalla firma e previo rilascio di circa 5.000 militanti del movimento dalle carceri governative, i Talebani cominciassero a dialogare ufficialmente con i rappresentanti e con l’apparato governativo afgano. Questo sarebbe avvenuto, per la prima volta concretizzato “nero su bianco”, da una loro posizione di forza, poiché l’accordo siglato con Washington li legittimava politicamente[7]. Nonostante i buoni propositi e la “storicità” dell’evento, un anno dopo la firma, la pace in Afghanistan e la riduzione sostanziale della violenza erano ancora lontane, mostrando le fragilità di un accordo sbilanciato. Il presidente Trump ha lasciato nel 2021 in eredità al suo successore, Joe Biden, un contingente militare ridotto a 2.500 uomini e due accordi diplomatici firmati lo stesso giorno, il 29 febbraio 2020, uno a Doha con i Talebani, l’altro a Kabul con il governo afgano. Se il primo legittimava politicamente il movimento degli “studenti”, assicurando e concedendo loro il ritiro completo dei contingenti stranieri entro la fine di aprile 2021, il secondo accordo tentava di rassicurare Kabul, non garantendo nulla al presidente Ghani[8].
Il 4 febbraio 2021, durante il suo primo discorso sulla politica estera, Biden non menzionò mai l’Afghanistan, lasciando trapelare l’incertezza che gli Stati Uniti avevano a riguardo. A poche settimane dalla fine di aprile, il termine previsto del ritiro delle truppe, il nuovo Segretario di Stato Antony Blinken dichiarò che l’accordo di Doha con i Talebani era in corso di revisione. Nonostante le pressioni affinché Biden rivedesse i piani del ritiro, tra le quali il Segretario Generale della Nato, Jens Stoltenberg, il quale affermò che “la nostra presenza è basata sulle condizioni, non a un calendario fisso. Nessun alleato vuole restare in Afghanistan più del necessario, ma non ce ne andremo prima che i tempi siano giusti”[9], il Presidente annunciò il 14 aprile che intendeva rispettare il testo firmato nel 2020, fissando la data ultima del ritiro all’11 settembre, anticipata poi al 31 agosto[10].
- La caduta di Kabul
Nel corso della primavera del 2021, proprio nel periodo favorevole in cui ogni anno riprendevano i combattimenti, venne a mancare del tutto il sostegno aereo all’esercito afgano, le basi militari furono a una a una evacuate e, insieme alla maggior parte dei contingenti internazionali, lasciarono il paese anche i contractors, i quali erano responsabili, tra i vari compiti, della manutenzione dei velivoli. Mentre munizioni, pezzi di ricambio e combustibile scarseggiavano, le forze di sicurezza si disgregavano gradualmente e le diserzioni si moltiplicavano. L’esercito e le forze di polizia faticavano a rimanere salde, poiché pesava la loro frammentazione su base regionale ed etnica e l’assenza al loro interno di legami di fedeltà nei confronti del governo, largamente screditato. A ciò si doveva aggiungere anche l’addestramento lacunoso che questi avevano, forse frutto della diffidenza dei contractors, e il fatto che molte armi date in dotazione all’esercito erano ormai sul mercato nero e non più in suo possesso[11].
Al contrario, i Talebani, nonostante si presentassero con un aspetto trasandato, avevano accesso a un’enorme quantità di armi ed erano inoltre, a differenza delle truppe governative, animati da una forte motivazione ed erano riusciti a ricomporre le fratture interne, almeno temporaneamente. Nella tarda primavera l’avanzata del movimento talebano divenne tumultuosa e quasi senza incontrare resistenza, tra maggio e luglio, i Talebani si presero pezzo per pezzo il paese. Prima di tutto i valichi di frontiera, fondamentali per evitare ingerenze esterne e per tassare le merci in entrata e in uscita, poi i distretti rurali e i capoluoghi di provincia, tagliando i rifornimenti a Kabul e circondandola quindi da ogni lato. Non dovendosi più difendere dai contingenti internazionali, i Talebani poterono concentrare i loro sforzi e i loro attacchi contro l’esercito afgano e i civili (attivisti dei diritti umani, giornalisti e quanti avevano collaborato con il governo o con i contingenti internazionali furono oggetto di ritorsione). Esecuzioni pubbliche e intimidazioni dimostrarono l’incapacità di Kabul nel difendere la popolazione e contribuirono alla diffusione del sentimento di rassegnazione generale che accompagnò le ultime fasi dell’avanzata talebana[12].
Immagine tratta da Ispi online – Afghanistan: il ritorno dei Talebani[13]
Sebbene i Talebani abbiano ottenuto rapide conquiste anche grazie al disimpegno militare statunitense avviato tra aprile e maggio, la resistenza messa in atto in particolare dalle forze speciali afgane supportate dall’esercito, dalla polizia e dalle milizie tribali fedeli ai mujaheddin ha certamente rallentato l’offensiva. A Lashkar Gah il generale Sayed Sami Sadat, comandante del 215° Corpo d’Armata dell’Esercito afgano responsabile del contrasto all’avanzata talebana, chiese ai residenti di evacuare le proprie case, al fine di “poter condurre un’operazione offensiva risolutiva” con il supporto aereo statunitense. Tuttavia, le operazioni di bombardamento colpirono, oltre alle posizioni tenute dai Talebani, anche l’ospedale civile, alcuni edifici industriali e l’università privata. La controffensiva talebana non si fece attendere, riportando la bandiera bianca dell’Emirato islamico a sventolare in prossimità dell’ufficio del governatore. Inoltre, le immagini diffuse sui social network da parte delle forze di sicurezza afgane mostravano i Talebani ben equipaggiati durante l’assedio di Lashkar Gah, armati e con abbondanti rifornimenti di munizioni[14].
L’offensiva talebana per la conquista di Kandahar, che ha avuto inizio l’ultima settimana di luglio, ha causato migliaia di persone sfollate e ha reso nei primi giorni di agosto inutilizzabile l’aeroporto, essenziale per il supporto aereo alle forze di sicurezza afgane, a seguito di una serie di bombardamenti mirati. Intensa è stata invece la resistenza all’avanzata talebana in Herat, tra le città più ricche ed economicamente importanti dell’Afghanistan. Popolazione locale e milizie erano agli ordini dell’ex governatore ed ex mujaheddin Ismail Khan, schierandosi al fianco delle forze di sicurezza nazionale. Il 29 e il 30 luglio sono stati i giorni in cui si è assistito a più intensi combattimenti nel distretto di Gozra, combattimenti che poi si sono estesi alla periferia urbana, portando i Talebani a prendere il controllo della strada tra Herat e l’aeroporto e la successiva conquista dei distretti di Karoakh e Gozra. Dopo varie offensive, ritirate e conquiste, e grazie anche al supporto aereo statunitense, queste sono tornate sotto il controllo delle forze afgane[15].
Il 3 agosto avvenne l’attacco talebano contro l’aeroporto di Herat, in prossimità del quale è collocata la base militare “Camp Arena”, in precedenza sotto responsabilità del contingente italiano, e assieme a questo anche la base della missione UNAMA ha subito perdite materiali e umane. Sempre il 3 agosto un’ondata di esplosioni colpì la “green zone” di Kabul, l’area fortificata e considerata un tempo sicura. L’obiettivo dell’attacco era il ministro della Difesa in carica, Bismillah Khan Mohammadi, non presente al momento dell’azione rivendicata dai Talebani. La sua uccisione sarebbe stata fortemente simbolica, poiché l’uomo aveva recentemente avviato il processo di riarmo delle milizie tribali e aveva preso la guida della resistenza nazionale antitalebana. La sua morte avrebbe abbattuto il morale delle truppe impegnate nella difesa delle capitali provinciali, da giorni sotto assedio talebano. Le periferie di tre grandi città nel sud e nell’ovest dell’Afghanistan, Herat, Lashkar Gah e Kandahar, erano stravolte dai combattimenti tra le forze di sicurezza afgane, ormai allo stremo, e le forze dei Talebani, i quali controllavano metà del paese[16].
Nel frattempo, l’11 agosto l’amministrazione Biden dichiarava che si preparava alla caduta di Kabul nelle mani dei Talebani entro un periodo “ben più breve rispetto ai 6-12 mesi previsti in precedenza alla luce del ritiro delle truppe statunitensi dal Paese”. Accanto alle previsioni dei funzionari americani, un altro funzionario che ha voluto mantenere l’anonimato stimava 90 giorni per la caduta della capitale, mentre altri ritenevano che la disfatta sarebbe avvenuta entro un mese[17]. Secondo un’indiscrezione pubblicata sulla Reuters, Joe Biden, in una telefonata del 23 luglio con il presidente afgano, chiedeva a Ghani di “aggiustare un problema di percezione” legata all’avanzata dei Talebani. “C’è bisogno, che sia vero o no, c’è bisogno di proiettare un’immagine diversa”, dichiarava Biden, rassicurando il suo omologo con affermazioni quali “continueremo a combattere duramente, diplomaticamente, politicamente, economicamente, per assicurarci che il tuo governo non solo sopravviva, ma sia sostenuto e cresca”, e le parole del leader americano indicano come egli non prevedeva minimamente il crollo totale che sarebbe avvenuto 23 giorni dopo[18].
Il 15 agosto le milizie talebane entrarono nella capitale, cogliendo tutti di sorpresa. Ghani, memore di quanto accaduto a Najibullah nel 1996, fuggì all’estero, mentre Saleh, il suo vice, si autoproclamò presidente ad interim della Repubblica islamica d’Afghanistan e si rifugiò nel Panjshir, dove il figlio del leggendario comandante Massoud stava organizzando la resistenza. Karzai, invece, rimase a Kabul nella speranza di arrivare a un accordo con i nuovi padroni in vista della formazione di un governo che fosse inclusivo, come avevano promesso all’inizio i Talebani. È in questa cornice che gli ultimi contingenti internazionali lasciavano l’aeroporto, cercando di “ripulire” le proprie ambasciate e di portare con sé coloro che avevano collaborato con loro nei vent’anni precedenti[19].
L’ultima resistenza ai Talebani si delineò nella Valle del Panjshir, i cui abitanti si sono sempre opposti sia agli “studenti” sia alle forze di invasione sovietiche. Culla del “Leone del Panjshir” fino al settembre 2001, quasi vent’anni dopo la Valle lo è anche per il figlio di Massoud, Ahmad. Le notizie che giungevano dal Panjshir erano frammentarie, ma ciò che è stato reso noto è il coraggio e la resistenza di Massoud e della sua Alleanza, organizzata intorno a due nuclei: i fedeli di Massoud e le milizie residue dell’ex esercito regolare afgano[20]. Il 10 settembre 2021, quasi un mese dopo la presa di Kabul, il fratello del comandante “Leone”, Wali Massoud, farà sapere in un’intervista de Il Corriere della Sera che “il Panjshir non è caduto. I Talebani possono sognarlo e il mondo magari crederci, ma è falso”[21].
Una delle immagini più commentate e più significative fu quella dell’elicottero militare Chinook vicino al tetto dell’ambasciata statunitense a Kabul intenta a permettere l’evacuazione del personale diplomatico rimasto, nonostante, l’8 luglio, Biden disse convinto “i Talebani non sono l’esercito nord vietnamita. […] Non vedremo persone evacuate dal tetto dell’ambasciata statunitense in Afghanistan. Non si possono fare assolutamente paragoni”. Un’altra immagine relativa al 15 agosto di Kabul è quella che ritrae una colonna di fumo salire dall’edificio dell’ambasciata americana: secondo due funzionari statunitensi, il fumo sarebbe stato prodotto dalla distruzione di documenti considerati sensibili e riservati che si trovavano all’interno. Fin dalle prime ore della giornata era diventato evidente che l’entrata in città dei Talebani sarebbe avvenuta nel giro di poche ore, ma inizialmente questi avevano diffuso un comunicato dicendo che avrebbero aspettato alle porte finché non si fosse trovato un accordo per un trasferimento di poteri dal governo di Ghani ai leader del movimento. Nel comunicato si prometteva anche che non si sarebbero verificate ritorsioni contro i civili e i militari, e che tutti erano “perdonati”, ma poco dopo i miliziani talebani iniziarono a percorrere le strade di Kabul sventolando la loro bandiera bianca[22].
L’arrivo dei Talebani in città provocò molta agitazione tra la popolazione locale, gettando il caos tra le vie di Kabul. Migliaia di persone corsero in banca a ritirare i propri risparmi, mentre altri erano intasati nel traffico per le strade della città. Altri ancora assalivano l’aeroporto internazionale Hamid Karzai di Kabul, dove chi è stato fortunato ha potuto prendere un aereo per lasciare il paese, e il centro per l’emissione dei visti per andare negli Stati Uniti. La disperazione, però, fu palpabile ed evidente attraverso un video molto impressionante che mostrava alcune persone cercare di salire a bordo di un C-17, un aereo militare, e perdere la vita mentre questo decolla perché aggrappati alle ali. “Game over”, come ha scritto la giornalista Francesca Mannocchi, la quale si trovava a Kabul per l’Espresso[23].
Meritevole di nota è stata l’attività dei Carabinieri paracadutisti italiani, appartenenti al 1° Reggimento “Tuscania”, i quali sono stati definiti da Maryam Sadaat, attivista per i diritti delle donne e funzionaria della vecchia amministrazione, come “angeli”. Dopo ore e ore di “tira e molla” con gli americani, e dopo l’intervento del ministero degli Esteri e del console, sono riusciti a salvare le donne che avevano lavorato con loro, riconoscendole attraverso il drappo rosso legato al polso[24]. I Carabinieri hanno pianificato e gestito l’evacuazione dell’ambasciata italiana a Kabul, buttandosi in mezzo alla folla e riuscendo a mettere in sicurezza gli afgani che avevano collaborato con i nostri diplomatici. L’impresa del console Tommaso Claudi, del capitano Dal Basso e dei suoi uomini ha fatto sì che, il 6 giugno 2022, il “Tuscania” ottenesse la Croce d’oro al merito dell’Arma dei Carabinieri, poiché “il Reggimento […] dava nuova prova dell’elevata capacità professionale e dell’eccezionale valore del proprio personale allorquando, nell’agosto 2021, a Kabul, impiegato per la sicurezza della Rappresentanza diplomatica durante il ripiegamento a seguito dell’offensiva dei movimenti talebani, assolveva ai propri compiti con ammirevoli coraggio e professionalità […]”[25].
L’esfiltrazione e l’evacuazione dei collaboratori locali divenne sempre più difficile, tuttavia, e giunse al termine quando, negli ultimi giorni di agosto, l’IS-K mise a segno una serie di attentati suicidi contro le folle che si accalcavano caoticamente ai cancelli dell’aeroporto, causando circa 180 morti, tra cui 13 marines. I Talebani si dichiararono estranei all’attentato che, tra l’altro, scalfiva l’immagine che tentavano di proiettare verso l’esterno, ovvero quella di un governo responsabile che controllava in modo capillare la città. Si scoprì, poi, che uno dei kamikaze era stato liberato dalle carceri di Kabul dai Talebani stessi, insieme a migliaia di militanti qaidisti e talebani e di criminali. Le strade di Kabul si svuotarono: chi non aveva avuto successo nel fuggire si chiudeva in casa, mentre le pattuglie e i checkpoint dei Talebani controllavano gli ingressi e le uscite della città. La guerra finiva, vent’anni dopo, senza che nessuno dei suoi obiettivi iniziali fosse stato raggiunto: l’Emirato talebano rinasceva[26].
Il jihadismo ovunque esultava per la vittoria contro l’infedele occidentale e nella notte del 24 agosto 2021 al-Qa’ida ha pubblicato un messaggio di congratulazioni per la vittoria dell’Emirato islamico attraverso il canale responsabile delle comunicazioni ufficiali del comando centrale qaidista. Il testo, scritto in lingua urdu, riporta le congratulazioni a tutti i leader e mujaheddin dell’Emirato islamico, in particolare al mullah Akhundzada, al suo vice politico Baradar e al “nono rispettato califfo Sirajuddin Haqqani”. Nel testo, oltre a glorificare le azioni dei Talebani, al-Qa’ida mostra la via che tutti i fedeli musulmani devono intraprendere, in quanto “non c’è altra scelta che intraprendere la via del jihad per combattere e difendersi dalle forze invasori”, sottolineando come l’Afghanistan debba essere preso da esempio, poiché “è una lezione per i musulmani che i musulmani di qualsiasi regione possono resistere all’assalto del nemico”[27]. Il colpo è durissimo, non solo per l’Occidente, ma anche per IS che vede l’acerrimo nemico farsi Stato, cosa mai riuscita per lui, oltretutto riconosciuto da Russia, Pakistan, Cina e Turchia.
- Afghanistan tra Talebani, al-Qa’ida e IS
In Afghanistan, oltre agli “studenti” coranici, non si può non tenere in considerazione il ruolo di al-Qa’ida e di IS, quest’ultimo “regia” degli attentati all’aeroporto di Kabul. I tre gruppi citati sono differenti, sia per le caratteristiche, sia per i loro obiettivi e le modalità che impiegano.
Innanzitutto, i Talebani non hanno aspirazioni globaliste, i loro piani si limitano ai confini dell’Afghanistan e alla presa di potere nel loro paese. Per tale ragione, soprattutto negli ultimi anni, non hanno mai perpetrato alcun attacco deliberato nei confronti della popolazione civile, ma il loro obiettivo era le “forze di invasione e governative”. Infine, si notano differenze anche nella struttura: se al-Qa’ida e Stato Islamico hanno una struttura compatta, i gruppi Talebani sono molto frammentati al loro interno, nonostante i suoi vertici tengano a dimostrare una linea comune e condivisa[28].
Fin dalla loro comparsa nella provincia del Khorasan delle Bandiere Nere, IS-K ha rappresentato un rivale per i Talebani. Il successo ottenuto in Siria e in Iraq ha convinto gli uomini dell’allora Califfo Abu Bakr al-Baghdadi di poter ricoprire un ruolo primario anche in Afghanistan, registrando molti arrivi dalle fila dei Talebani e da al-Qa’ida. Con la caduta del Califfato, l’Afghanistan era sembrato il paese da cui il gruppo sarebbe potuto ripartire, ma oggi questo conta solamente poche centinaia di membri. Nonostante ciò, riesce comunque a farsi notare per la recrudescenza degli attacchi terroristici, sferrandoli spesso contro cittadini o minoranze etniche. Questo carattere destabilizzatore rende IS-K uno dei principali antagonisti del movimento guidato dal mullah Akhundzada[29]. Risollevato in capacità operativa dopo l’offensiva delle forze di sicurezza afgane e degli Stati Uniti a partire dal 2018, l’IS-K è tornato a operare imponendo la propria presenza, forza e violenza nella capitale Kabul, nelle province di Kunar e Nangarhar, storica roccaforte del gruppo in Afghanistan, e nella città di Kunduz[30].
Un articolo de Il giorno scrive il 4 ottobre 2021 che “è guerra totale in Afghanistan, a colpi di attentati e ritorsioni, tra Isis e Talebani”. Il movimento talebano ha distrutto una cellula dello Stato Islamico a nord di Kabul, dopo che questo aveva comandato un attentato fuori da una moschea nella capitale il 2 ottobre, causando “nell’attacco più grave compiuto a Kabul dal ritiro delle forze statunitensi” diversi morti e feriti. A seguito dell’evento, il portavoce dei Talebani ha dichiarato che un’unità speciale del suo movimento ha effettuato il 3 ottobre un’operazione contro esponenti di IS-K, distruggendo completamente la sua base[31]. Gli attentati in Afghanistan continuano, anche dopo che i riflettori del mondo si sono spenti. Il 2 novembre si legge su Il Fatto Quotidiano: “La situazione sicurezza in Afghanistan continua a precipitare. Oggi si registra un nuovo sanguinoso attentato che ha colpito la capitale Kabul”. Un commando jihadista ha attaccato vicino al più grande ospedale militare afgano, causando una ventina di vittime e 50 feriti, e dopo alcune ore è giunta la rivendicazione di IS-K[32].
I talebani sono in guerra con lo Stato Islamico, che in Afghanistan ha creato una sua divisione operativa che considera i guerriglieri traditori della vera religione al servizio di stati infedeli come il Pakistan e rimprovera loro di essere troppo poco rigorosi e pedine nelle mani degli americani. Senza americani, non è detto che i talebani riusciranno a contenere lo Stato Islamico. In alcune province dove ci sono stati scontri diretti hanno perso, in altre hanno vinto. L’idea che molte parti dell’Afghanistan potrebbero diventare negli anni a venire l’arena di una guerra permanente fra Stato Islamico e Talebani per il controllo di territori più o meno lontani dalla capitale Kabul non getta una luce ottimista sul ritiro occidentale[33].
Di fatto, oggi lo Stato Islamico in Afghanistan, benché ridotto nei numeri e nell’effettiva capacità militare, colpisce il governo dei Talebani così come questi hanno colpito, per venti anni, il governo di Kabul sostenuto dalla comunità internazionale. Ma se i Talebani hanno sempre combattuto una guerra di liberazione nazionale attraverso il jihad, l’IS-K, al contrario, guarda al jihad come strumento di lotta globale finalizzato a imporre la propria interpretazione di islam, anche contro le stesse comunità musulmane. Un processo politico e ideologico che tende a spostare l’asse del conflitto afgano da “guerra nazionale”, conclusa favorevolmente per i Talebani, a stimolo di un jihad globale e senza confini che sarà condotto sotto il comando dello Stato Islamico[34].
Infine, c’è al-Qa’ida, che con i talebani, anche a livello locale, non è mai arrivata ad una fusione, anche se non sono rari i casi di collaborazione negli anni, soprattutto nelle operazioni che prevedevano attacchi contro le truppe occidentali e in particolar modo tra le frange più estremiste vicine ai Talebani, come la rete Haqqani. I Talebani si sono sempre rifiutati di consegnare alla coalizione Osama bin Laden e, ancora durante i giorni della rinascita dell’Emirato islamico, il portavoce Zabihullah Mujahid ha ribadito che non esistono prove del coinvolgimento dello sceicco negli attentati dell’11 settembre[35].
Da quando hanno annunciato la rinascita dell’Emirato islamico, i Talebani hanno subito forti pressioni da parte della comunità internazionale per rinunciare ai legami con al-Qa’ida. Il portavoce ha respinto ogni accusa secondo cui l’organizzazione qaidista ha mantenuto la sua presenza in territorio afgano, promettendo più volte che non ci sarebbero stati attacchi a paesi terzi da parte di movimenti militanti dall’Afghanistan[36]. Accanto a queste promesse, però, c’è la realtà, ovvero la presenza, nella rapidissima riconquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani, della rete Haqqani, un gruppo armato afgano alleato dei Talebani e considerato il principale collegamento tra loro e al-Qa’ida.
- Il network Haqqani, punto di incontro tra i Talebani e al-Qa’ida
Nella rapida campagna di riconquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani la rete Haqqani ha avuto un importante ruolo. Gruppo armato afgano alleato dei Talebani dal 1995 con Jallaleuddin Haqqani e considerato il principale collegamento tra loro e al-Qa’ida, questo gode di una sua autonomia strategica e finanziaria, rendendolo pericoloso, potente e, soprattutto, necessario al movimento talebano, al quale fornisce armi e denaro. La rete è stata inoltre definita dal dipartimento di Stato statunitense come “il gruppo di insorti più pericoloso” per le forze di sicurezza afgane e i suoi alleati, inoltre si è resa responsabile di alcuni degli attacchi più gravi realizzati negli ultimi anni contro civili e militari ed è anche il principale punto di contatto tra i Talebani e l’organizzazione qaidista[37].
Paradossalmente, la rete Haqqani è nata grazie al sostegno della CIA, una delle agenzie di intelligence statunitensi, negli anni Ottanta. Gli Stati Uniti, impegnati a contrastare l’occupazione sovietica in Afghanistan, fecero un grosso trasferimento di armi e denaro a uno dei capi della resistenza islamista, Jalaluddin Haqqani, permettendogli di concretizzare il proprio movimento. I rapporti con gli Stati Uniti, alleati durante l’occupazione sovietica, si deteriorarono quando i russi lasciarono il paese e gli americani interruppero il loro supporto ai mujaheddin. Nel 2001, anno dell’invasione americana in Afghanistan, la rete Haqqani passò sotto il comando del figlio di Jalaluddin, Serajuddin, che mise in piedi una grande campagna contro i suoi ex alleati. Sopravvissuto a vent’anni di guerra, Serajuddin Haqqani è oggi uno dei capi dei Talebani ed è uno dei criminali più ricercati dall’FBI[38].
Nel 2020 Serajuddin Haqqani, a lungo oppositore dell’accordo tra Talebani e americani, scrisse un articolo sul New York Times per celebrare gli accordi di Doha, e nel testo, scritto con toni diplomatici e concilianti, Haqqani presentava i Talebani come un gruppo moderato, istituzionalmente credibile e interessato alla pace, alla stabilità del paese e al rispetto dei diritti umani, purché compatibili con la legge islamica[39]. La rete, inoltre, opera in un’area strategica del paese e gestisce un capillare ed efficiente sistema di reperimento fondi e risorse economiche, tra cui rapimenti e riciclaggio di denaro, e, proprio per tale motivo, gli Stati Uniti la considera un’organizzazione terroristica. Il legame fra Talebani e al-Qa’ida non si è mai rotto, tanto che centinaia di guerrieri e combattenti qaidisti, tra cui al-Zawahiri, si trovano ancora in Afghanistan e al-Qa’ida ha per molti anni considerato gli Haqqani come il partner principale. A sostegno di ciò, il documento del Consiglio di Sicurezza ONU del 2020 riporta i costanti contatti tra al-Qa’ida e la rete Haqqani durante i colloqui di pace con gli Stati Uniti a Doha, legame basato “sull’amicizia, su una storia di battaglie condivise, di simpatie ideologiche e matrimoni tra i due gruppi”[40].
Nel 2014 l’ammiraglio Mike Mullen, ex capo di stato maggiore interforze statunitense, riferendosi al network Haqqani dichiarò che questo agiva come “braccio armato dell’ISI pachistano”, il quale considera gli Haqqani dei “buoni Talebani”, poiché evitano di attaccare obiettivi all’interno del territorio nazionale. Fin dall’inizio dell’intervento in Afghanistan, le forze della coalizione internazionale hanno fronteggiato l’infiltrazione di combattenti provenienti dai santuari in Pakistan, ma la rete Haqqani è stata uno dei serbatoi principali, insieme alla shura di Quetta, il consiglio supremo dei Talebani. Oltre a ciò, negli anni Ottanta l’embrione qaidista vide l’appoggio della rete Haqqani, e molti dei suoi combattenti si addestrarono nel campo di Zhawar Kili, gestito dallo stesso network nella provincia di Khost[41].
La vicinanza tra le due realtà si rafforzò nel decennio successivo, quando, espulso nel 1996 dal Sudan, bin Laden trovò rifugio nelle retrovie del clan. Gli attentati del 2001 non modificano il rapporto, infatti il clan ha rinnovato la sua fiducia ad al-Qa’ida, fino a scontrarsi con parte della shura di Quetta, favorevole invece a prendere le distanze dal gruppo jihadista[42]. Negli anni il network divenne sempre più complesso e organizzato, realizzando attacchi contro i soldati statunitensi, contro l’esercito afgano e i civili. Tra le azioni più sconvolgenti ed eclatanti del network vanno ricordate quelle del giugno 2011 presso il Continental hotel di Kabul, realizzato in sinergia con le milizie talebane, quello contro l’ambasciata statunitense nel settembre dello stesso anno, il quartier generale di ISAF, il palazzo presidenziale e il quartier generale della Direzione centrale della sicurezza talebana[43].
La rete era poi tornata sotto i riflettori internazionali nel 2018, con la morte del suo fondatore Jalaluddin e nel 2021, con l’avanzata dei Talebani su Kabul e Serajuddin come ministro degli interni dell’Emirato islamico afgano. A lui e alla sua rete sono stati delegati i compiti della gestione della sicurezza di Kabul, e ciò preoccupa alla luce della natura del network Haqqani. La strategia della rete è pragmatica e l’organizzazione è motivata e spinta da preoccupazioni locali, ma mantiene un impegno nel jihad globale. La rete Haqqani e al-Qa’ida funzionano come un sistema interdipendente[44]. Inoltre, tornando indietro nel tempo, i legami con Osama bin Laden sono documentati ed è grazie all’aiuto del leader saudita e dei fondi arabi che Jalaluddin ha costruito il complesso di cave e tunnel sulle montagne di Zhawara, nella provincia afgana di Khost. In cambio, bin Laden ottenne da Haqqani il permesso di gestire i propri campi di addestramento, incubatrice degli attentati dell’11 settembre[45].
- Conclusioni finali
Con gli Accordi di Doha, giunti al termine di negoziati che ebbero luogo tra il 2018 e il 2020, si sanciva il ritiro delle truppe straniere entro il settembre 2021, realizzando la rivendicazione principale dei Talebani e gettando le basi di quello che sarebbe avvenuto nell’agosto 2021. Finiva così, quasi vent’anni dopo gli attentati dell’11 settembre, una guerra costata all’Afghanistan quasi 170.000 morti, di cui 43.000 civili, a cui si aggiungono 3.846 decessi fra i contractors, 2.461 tra i soldati statunitensi e 1.114 tra quelli di altri paesi, di cui 53 italiani. Svanisce dopo venti anni l’utopia della democrazia a Kabul, un sistema di governo caro alle potenze occidentali ma alieno alla storia e alle peculiarità endogene del paese. In quanto all’Occidente, e soprattutto agli Stati Uniti che hanno dettato prima i tempi e le modalità dell’entrata in guerra e poi del ritiro, “la sua credibilità non è mai stata così bassa”, afferma Elisa Giunchi, professoressa di Storia e Istituzioni dell’Asia presso l’Università degli Studi di Milano. Il ritiro era inevitabile: annunciato da Obama, delineato da Trump e confermato poi da Biden, era una decisione ormai condivisa da tutti. I contribuenti americani non volevano più sprecare vite umane e risorse per una guerra ormai considerata lontana e di cui si era perso il senso[46].
Le dichiarazioni di Biden del 16 agosto, il giorno seguente la caduta di Kabul, hanno contribuito ad acuire il divario tra gli Stati Uniti e i suoi alleati in seno alla NATO. In difesa alle accuse e critiche mosse contro di lui, il presidente statunitense ha sostenuto in un discorso alla nazione nel quale affermava che il principale obiettivo della guerra era stato raggiunto, dal momento che l’interesse nazionale degli Stati Uniti in Afghanistan è sempre stato “prevenire un attacco terroristico sulla terra d’origine americana”, missione soddisfatta, affermando inoltre che l’obiettivo statunitense non è mai stato la costruzione della nazione afgana. Oltre a ciò, Biden ha puntato il dito contro le forze armate afgane per la crisi in corso, colpevoli di non aver resistito all’offensiva fulminea dei Talebani, ma anche contro i principali leader afgani, i quali si sono arresi e sono fuggiti dal paese[47].
È, questa, una dichiarazione che corrispondeva alla posizione che Biden aveva sempre avuto e che era largamente condivisa dalla popolazione, ma che si trova in netto contrasto con decenni di sforzi da parte di differenti stati e organizzazioni internazionali, volti non solo a ridefinire il sistema politico-istituzionale afgano, ma anche a risollevare la popolazione e a darle speranza. In qualsiasi caso, c’era e c’è motivo di dubitare che la rete qaidista fosse e sia sconfitta: sebbene indebolita dai vari bombardamenti di OEF, al-Qa’ida è ancora presente nel paese tanto quanto lo è IS-K. Non è stato visto nemmeno di buon grado l’aver scaricato, da parte del presidente statunitense, ogni responsabilità in merito alla caduta di Kabul sull’esecutivo e sull’esercito afgano. Queste dichiarazioni sono, comunque, offensive per le forze di sicurezza afgane che hanno perso circa 66.000 uomini in vent’anni e che sono state private della copertura aerea proprio nel momento in cui ne avrebbero avuto maggiormente bisogno[48].
Una domanda che molti si sono posti all’indomani della presa di Kabul è se i Talebani siano cambiati rispetto agli anni Novanta, e questa non è una domanda scontata, poiché dalla risposta dipende il riconoscimento dell’Afghanistan e del nuovo Emirato islamico da parte della comunità internazionale. Le prime dichiarazioni del movimento talebano sono state in qualche modo concilianti: i portavoce dell’Emirato rinato il 15 agosto 2021 hanno dichiarato il loro impegno nel dar vita a un governo inclusivo, nel proteggere le minoranze sciite e nel rispettare i diritti delle donne, in linea con la shari’a ovviamente. Si tratta di posizioni frutto della pragmaticità di Baradar, consapevole che la moderazione è necessaria per ottenere il riconoscimento internazionale e cercare consensi all’interno del paese[49].
Le dichiarazioni dei Talebani sono state accolte con scetticismo in Occidente, in parte giustificate dallo stridere tra queste e le immagini di esecuzioni sommarie che sarebbero avvenute fuori dalla capitale. Inoltre, le dichiarazioni sono sempre condizionate al rispetto della shari’a, nella versione dei Talebani. I mesi successivi sono stati fondamentali per valutare se e come gli “studenti” sono cambiati, qual è lo spazio che vogliono dedicare alle varie anime componenti la società afgana e il modo in cui intendono amministrare il paese. Tuttavia, la composizione del governo ad interim annunciata il 7 settembre non lasciava ben sperare: accanto a Baradar, rappresentante dell’ala pragmatica del movimento e nominato vice primo ministro, vi è la rete Haqqani, l’anima più violenta, intransigente e antisciita dei Talebani che controlla circa un terzo del gabinetto. Pochissimi sono gli esponenti delle minoranze etniche (due tagiki e un uzbeko), mentre non vi sono hazara, né donne, né figure politiche legate all’esecutivo di Karzai o Ghani. È un governo sostanzialmente monoetnico e sunnita che preoccupa non solo i paesi occidentali, ma anche diversi paesi limitrofi[50].
Nonostante le dichiarazioni talebane in merito alle loro intenzioni di volersi impegnare nel garantire la sicurezza di tutti i cittadini, di formare un “governo inclusivo” e di voler dialogare e interfacciarsi con l’Occidente, le decisioni prese dal movimento vanno in una direzione nettamente opposta. Oggi, dopo quasi 11 mesi dalla presa della capitale, l’Afghanistan è un paese sull’orlo del fallimento, la cui economia si è ridotta dell’oltre 40 percento. La vita di milioni di persone è “appesa al filo”, la fame dilaga, l’istruzione e i servizi sociali versano in condizioni disastrose. Accanto a ciò, la preoccupazione e il rischio per il mancato rispetto dei diritti umani e delle donne sono sempre maggiori[51].
A tal proposito, sebbene i Talebani avessero promesso di essere più flessibili, rispetto al passato, nei confronti delle donne e malgrado le “attenzioni” del governo a non emanare regole nazionali troppo rigide, sono state le autorità provinciali a subentrare e a definire gli obblighi da rispettare. Basti solo pensare che una donna afgana oggi non può lavorare fuori casa, ad eccezione di alcune donne medico e infermiere, se non accompagnate da un parente stretto, non può indossare vestiti colorati e nemmeno andare in bicicletta. E l’elenco di restrizioni è molto lungo[52]. Proprio in merito al tema dei diritti umani e delle donne, nel gennaio 2022, i Talebani hanno partecipato ad Oslo, per la prima volta con la loro delegazione in un paese occidentale, a tre giorni di colloquio con Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Italia, Germania e Norvegia. Nonostante gli incontri non avrebbero dovuto essere considerati come un riconoscimento del regime, un funzionario talebano ha dichiarato che questi hanno costituito un “passo per legittimare il governo afgano”[53].
Oltre a ciò, a destare ulteriori preoccupazioni è il ritorno del braccio afgano dell’autoproclamato Califfato, poiché l’instabilità dell’Afghanistan ha permesso al sedicente Stato Islamico di approfittarne, ed è infatti di ISIS-K la firma degli attentati che hanno avuto luogo e che stanno ancora avvenendo nel paese. Tali eventi, tra i quali l’attacco del 2 novembre 2021 al più grande ospedale militare situato a Kabul, il quale causò 25 morti e più di 50 feriti[54], e il più recente del 21 aprile 2022 che ha colpito contemporaneamente la moschea sciita di Mazar-i Sharif e la città di Kunduz, hanno fatto sì che i Talebani si trovassero a gestire una situazione complessa, con poco, se non nullo, sostegno internazionale e ancor meno esperienza nell’affrontare questa realtà[55].
A tutta la miseria che il popolo afgano sta vivendo da quasi un anno si è andato ad aggiungere il disastro del terremoto del 21 giugno 2022. L’Afghanistan, che già vive nel ciclone di una crisi umanitaria ed economica, ha subito la violenta scossa di magnitudo 6.1 nel sud est del Paese. La catastrofe ha causato la morte di più di 1.000 persone e almeno 1.500 feriti, radendo al suolo migliaia di case, e far giungere i soccorsi è difficoltoso, poiché quella è una zona impervia, con strade accidentate e ora gravemente danneggiate. I Talebani al governo si sono rivolti al mondo, chiedendo “alle agenzie umanitarie di fornire soccorsi immediati alle vittime del terremoto per prevenire una catastrofe umanitaria”. Mancano le medicine, manca il personale adeguatamente formato, manca il gasolio per la corrente, mancano il cibo e la sanità[56].
È in questa occasione che il governo talebano tenta di uscire dall’isolamento diplomatico attraverso la richiesta di aiuti alla comunità internazionale: da un lato deve mostrare la sua capacità di governare durante l’emergenza, mentre dall’altro lato deve riuscire ad individuare interlocutori persi a seguito dello scorso agosto. Joe Biden, dopo aver espresso rammarico per le perdite subite dall’Afghanistan, ha sollecitato l’agenzia per la Cooperazione internazionale, poiché “un conto sono le reazioni emotive e le scelte umanitarie, un conto le scelte politiche”. Accanto agli Stati Uniti, anche l’Unione Europea ha stanziato un milione di euro, tuttavia gli aiuti concreti, quali camion carichi di tende e medicinali, sono giunti dal Pakistan, dall’Iran e dal Qatar[57].
L’Afghanistan è messo in ginocchio dalla povertà, dalla miseria, dalla carestia, dalla tragedia del terremoto, e chi paga il prezzo del fallimento e del ritorno dei Talebani sono gli afgani stessi. In vent’anni i progressi per loro sono stati insignificanti, pochi i miglioramenti, mentre le perdite umane altissime: decine di migliaia di morti negli ultimi anni che si sommano alle vite perse durante i raid americani e della NATO. Coloro che pagano il prezzo più caro sono le donne, le quali erano riuscite a rivendicare il diritto allo studio e un certo grado di autonomia personale, del tutto negato nel primo Emirato dei Talebani e ambiguo tutt’oggi. Il New York Times ha parlato di “un fallimento epocale finito in maniera umiliante”, ma c’è chi suggerisce di analizzare “con onestà quanto accaduto”.
Diversi sono stati gli errori occidentali in una guerra che, sembra evidente, deve essere apparsa agli occhi di alcuni segmenti delle forze afgane e della popolazione come una battaglia patriottica per la liberazione del paese, vessato da due invasioni straniere, quella sovietica del 1979 e quella americana del 2001. Non possiamo credere che l’Afghanistan abbia ceduto alla morsa dell’islamismo fondamentalista senza alcuna resistenza e in così poco tempo, ma è verosimile che questa sia stata vista come una “guerra di liberazione, combattuta sotto l’Islam più intransigente”, elemento unificante in una società etnicamente parcellizzata come quella afgana, ma anche elemento di contrasto rispetto alla presenza delle truppe straniere. Da qui la decisione, di alcuni, di non opporsi e non sacrificare la propria vita per combattere contro la propria gente, al servizio di un governo considerato fin da subito “fantoccio” e pilotato dall’Occidente[58].
Fin dall’inizio quasi nessuno del mondo occidentale ha mai compreso che l’amministrazione posta al governo di Kabul non avrebbe mai potuto essere considerata legittima dalla popolazione pashtun, abituata a combattere contro lo straniero sostenuto dall’esterno. Oltre a ciò, il più generale progetto di modernizzazione, accompagnato dallo state-building avviato nel 2001, ha interessato segmenti della popolazione afgana, rivolto ad élite e non alla sua interezza. La ricostruzione e le riforme hanno inoltre avvantaggiato alcuni settori della popolazione, mentre non raggiunsero mai le aree più periferiche e rurali, e al contempo alcune innovazioni vennero percepite come imposizioni esterne ed esogene, una prova della corruzione morale che dilagava nella capitale, come le riforme volte a garantire diritti e libertà alle donne.
In tal modo si approfondiva la percezione del divario economico e culturale tra una capitale ormai occidentalizzata e il resto della società fedele alla tradizione, contemporaneamente si instaurava tra insorti e popolazione un legame di natura clientelare, indispensabile in uno stato percepito assente e si radicavano i Talebani nelle aree pashtun. Il movimento degli “studenti” coranici, nato nel 1994 e addestrato nelle madrasa pachistane, non era e non è mai stato un elemento estraneo, bensì parte integrante della realtà rurale. Molti “insorti marginali” erano contadini che non sposavano la causa talebana ma cercavano protezione e fonte di reddito, e gli stessi vertici del movimento provenivano dal tessuto rurale del sud e del sud-est afgano. Così come le reti di taleb nel corso dell’Ottocento si univano per combattere minacce esterne, mantenendo la propria natura autonoma e tornando a dividersi una volta raggiunta la pace, anche oggi i Talebani rimangono una realtà policentrica, nonostante il continuo lavoro di compattamento perpetrato negli anni.
Sull’esito della guerra e sullo stato attuale del paese pesano errori politici, tattici e strategici che poco hanno a che vedere con la storia dello stesso. Errato è stato il porsi obiettivi diversi che hanno condotto a incoerenza nel delineare i piani da attuare: ci si è prefissati lo sradicamento di al-Qa’ida accanto alla promozione della democrazia e dei diritti umani, la stabilizzazione regionale e la necessità di controllare un’area strategicamente rilevante. La varietà di obiettivi coesistenti ha portato, inevitabilmente, a prolungare l’impegno militare, con l’effetto di erodere negli anni tanto le risorse economiche, quanto il morale delle truppe che si trovavano in Afghanistan e di chi era a casa, sacrificando uomini e risorse per ragioni che non risultavano, nemmeno dopo quasi ventuno anni, ancora del tutto chiari.
Dell’esito della guerra ne ha forse risentito la credibilità degli Stati Uniti, che questa guerra l’hanno caldamente voluta, poiché del vuoto creato da loro ne hanno approfittato gli attori che gli americani hanno combattuto negli ultimi anni ed è probabile che nel contesto imprevedibile dell’Afghanistan si inseriscano, come abbiamo visto con IS-K, anche altri attori non statuali. Per quanto concerne gli attori statuali, invece, Russia e Cina hanno visto di buon grado il ritiro statunitense, preoccupate che l’utilizzo americano delle basi militari afgane potesse trasformarsi in uno strumento volto a limitare la loro influenza nell’area, ma entrambe temono che la rinascita dell’Emirato possa alimentare i gruppi jihadisti nella regione.
Si può, inoltre, ipotizzare che la fine della guerra in Afghanistan abbia in qualche modo influenzato indirettamente i comportamenti russi anche in Ucraina. La politica estera, da sempre, ha ricoperto un ruolo importante per Washington e, in particolare, l’impiego della forza militare all’estero rappresenta un elemento in grado di decretare il destino dei Presidenti, i quali hanno dovuto scegliere se utilizzare o meno questo strumento. Non solo per quanto riguarda l’opinione pubblica in patria, ma anche per la percezione estera, se gli USA sono stati avvertiti come più deboli o comunque non più in grado di influenzare la politica internazionale come un tempo e, soprattutto, fragili da un punto di vista militare, allora la minaccia dell’uso della forza come mezzo di coercizione non sortirà più lo stesso effetto che avrebbe suscitato in passato.
Concludendo e ritornando ai Talebani, se questi dovessero dimostrare di non essere in grado di controllare il paese e di consolidare il proprio potere e se l’Afghanistan dovesse precipitare in una guerra civile, ciò contribuirebbe a peggiorare una situazione già difficile sul piano economico e sociale. I Talebani, inoltre, per scongiurare una possibile influenza della vicina Teheran, hanno ogni interesse a perseguire una politica inclusiva sul piano etnico-religioso e a tagliare ogni legame con l’organizzazione qaidista e con i gruppi jihadisti. Quello che vorrebbe fare l’ala pragmatica del movimento è moderare alcuni aspetti ideologici che ispirano il movimento ma evitare di allontanare le componenti meno avvezze al compromesso, ovvero la rete Haqqani. La sfida è quindi anche all’interno del movimento stesso: non solo assicurare la sopravvivenza dell’Emirato ma anche tenere insieme le diverse anime dei Talebani[59]. Gli “studenti” del 2021 non sono diventati più moderati, ma hanno imparato l’arte della diplomazia, poiché si sono resi conto che per ottenere il riconoscimento della comunità internazionale è necessario presentarsi al mondo con un’immagine più “soft” rispetto a quella che li ha resi celebri negli anni Novanta.
Dunque, la “terra degli afgani”, tomba di ogni impero, ha da sempre attirato le attenzioni del mondo occidentale e del Medio Oriente, e continua tutt’oggi.
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[3] Battiston Giuliano, Afghanistan: le carte di Ghani e la speranza di un’altra tregua, ispionline.it, 23 luglio 2018, Afghanistan: le carte di Ghani e la speranza di un’altra tregua | ISPI (ispionline.it)
[4] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, Carocci Editore, Roma, 2021, p. 139.
[5] Battiston Giuliano, Accordo storico USA-Talebani, ma la pace è ancora incerta, ispionline.it, 28 febbraio 2020, Accordo storico USA-Talebani, ma la pace è ancora incerta (ispionline.it)
[6] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., pp. 139-140.
[7] Battiston Giuliano, Accordo storico USA-Talebani, ma la pace è ancora incerta, op. cit.
[8] Battiston Giuliano, L’Afghanistan a un anno dall’accordo di Doha, ispionline.it, 3 marzo 2021, L’Afghanistan a un anno dall’accordo di Doha | ISPI (ispionline.it)
[9] Idem.
[10] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 140.
[11] Idem.
[12] Ibidem, pp. 140-141.
[13] ISPI, Afghanistan: il ritorno dei Talebani, 16 agosto 2021, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/afghanistan-il-ritorno-dei-talebani-31366
[14] Bertolotti Claudio, Afghanistan: l’avanzata talebana da Herat a Kabul, ispionline.it, 4 agosto 2021, Afghanistan. I talebani assaltano tre grandi città: Herat, Lashkar Gah e Kandahar | ISPI (ispionline.it)
[15] Idem.
[16] Idem.
[17] ANSA, Afghanistan: Usa prevedono caduta di Kabul entro 90 giorni, Roma, 11 agosto 2021, ANSA.it, Afghanistan: Usa prevedono caduta di Kabul entro 90 giorni – Asia – ANSA
[18] Rostom Aram, Bose Nandita, Exclusive: Before Afghan collapse, Biden pressed Ghani to “change perception”, Reuters.com, 31 agosto 2021, Exclusive: Before Afghan collapse, Biden pressed Ghani to ‘change perception’ | Reuters
[19] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 141.
[20] Mauri Paolo, La resistenza nel Panjshir e il “piccolo grande gioco” per l’Afghanistan dei Talebani, 9 settembre 2021, insideover.com, La resistenza nel Panjshir e il “grande gioco” per l’Afghanistan dei talebani (insideover.com)
[21] Nicastro Andrea, Afghanistan, Massoud Jr.: “Scacceremo gli invasori talebani. Il Panjshir non è ancora perduto”, 9 settembre 2021, ilcorriere.it, Afghanistan, Massoud Jr.: «Scacceremo gli invasori talebani. Il Panshir non è ancora perduto»- Corriere.it
[22] Ilpost.it, La caduta di Kabul, per immagini, 15 agosto 2021, La caduta di Kabul, per immagini – Il Post
[23] Idem.
[24] Schiavulli Barbara, Afghanistan, operazione fazzoletto rosso: così i carbinieri hanno portato in salvo le attiviste dirette in Italia, 22 agosto 2021, repubblica.it, https://www.repubblica.it/esteri/2021/08/22/news/cosi_i_carabinieri_portano_in_salvo_le_attiviste_con_il_fazzoletto_rosso-314971904/
[25] Addario Sandro, Carabinieri, croce d’oro al Tuscania e al 7° Trentino Alto Adige, 6 giugno 2022, osservatorelibero.it, https://www.osservatorelibero.it/2022/06/06/carabinieri-croce-oro-reggimento-tuscania-e-reggimento-7-trentino-alto-adige/
[26] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., pp. 141-142.
[27] Piazza Stefano, Al Qaeda festeggia: “L’Afghanistan è nostro”, panorama.it, 24 agosto 2021, Al Qaeda festeggia: «L’Afghanistan è nostro» – Panorama
[28] Rosini Gianni, Talebani, Isis e al-Qaeda in Afghanistan non sono la stessa cosa: tra rivalità, lotta per il potere e obiettivi diversi, ilfattoquotidiano.it, 26 agosto 2021, Talebani, Isis e al-Qaeda in Afghanistan non sono la stessa cosa: tra rivalità, lotta per il potere e obiettivi diversi – Il Fatto Quotidiano
[29] Idem.
[30] Bertolotti Claudio, Afghanistan, il collasso statale dei Talebani e lo scontro con IS-K, ispionline.it, 11 ottobre 2021, Afghanistan, il collasso statale dei Talebani e lo scontro con IS-K (ispionline.it)
[31] Ilgiorno.it, Afghanistan, guerra totale tra Isis e Talebani dopo l’attentato alla moschea, 4 ottobre 2021, Afghanistan, guerra totale tra Isis e Talebani dopo l’attentato alla moschea – Esteri (ilgiorno.it)
[32] Ilfattoquotidiano.it, Afghanistan, autobomba e commando armato fanno strage a Kabul: almeno una ventina di morti e 50 feriti. Isis-K ha rivendicato, 2 novembre 2021, Afghanistan, autobomba e commando armato fanno strage a Kabul: almeno una ventina di morti e 50 feriti. Isis – K ha rivendicato – Il Fatto Quotidiano
[33] Raineri Daniele, E poi ci siamo arresi ai talebani, ilfoglio.it, 28 gennaio 2019, https://www.ilfoglio.it/esteri/2019/01/28/news/e-poi-ci-siamo-arresi-ai-talebani-235124/
[34] Idem.
[35] Rosini Gianni, Talebani, Isis e al-Qaeda in Afghanistan non sono la stessa cosa: tra rivalità, lotta per il potere e obiettivi diversi, op. cit.
[36] Gopalakrishnan Raju, Mackenzie James, Taliban say no al Qaeda or ISIS in Afghanistan, 21 settembre 2021, reuters.com, Taliban say no al Qaeda or ISIS in Afghanistan | Reuters
[37] Ilpost.it, Il punto di incontro fra i talebani e al Qaida, 1 settembre 2021, Il punto di incontro fra i talebani e al Qaida – Il Post
[38] Idem.
[39] Serajuddin Haqqani, What We, the Taliban, Want, in The New York Times, 20 February 2020, https://www.nytimes.com/2020/02/20/opinion/taliban-afghanistan-war-haqqani.html
[40] Security Council ONU, Letter dated 19 May 2020 from the Chair of the Security Council Committee established pursuant to resolution 1988 (2011) addressed to the President of the Security Council, 27 maggio 2020, N2011060.pdf (un.org)
[41] Palmas Francesco, Il famigerato network Haqqani, 31 gennaio 2014, difesa.it, Il famigerato network Haqqani – Difesa.it
[42] Idem.
[43] Rutigliano Maria Grazia, Afghanistan: la rete Haqqani guadagna territorio, 4 febbraio 2021, sicurezzainternazionale.luiss.it, Afghanistan: la rete Haqqani guadagna territorio | Sicurezza internazionale | LUISS
[44] Rassler Don e Brown Vahid, La rete Haqqani e al-Qaeda, foreignpolicy.com, 19 luglio 2021, La rete Haqqani e al-Qaeda – Politica estera (foreignpolicy.com)
[45] Tonacci Fabio, Serajuddin Haqqani, da terrorista ricercato a ministro del nuovo governo afgano, larepubblica.it, 11 settembre 2021, Serajuddin Haqqani, da terrorista ricercato a ministro del nuovo governo afgano – la Repubblica
[46] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 142.
[47] Biden Joe, Remarks by President Biden on Afghanistan, whitehouse.gov, 16 agosto 2021, Remarks by President Biden on Afghanistan | The White House
[48] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., p. 143.
[49] Ibidem, p. 147.
[50] Ibidem, p. 149.
[51] RaiNews, Povertà estrema, poca scuola e un’epidemia: l’Afghanistan a sei mesi dalla presa di Kabul, 15 febbraio 2022, rai news.it https://www.rainews.it/articoli/2022/02/sei-mesi-fa-la-presa-di-kabul-lafghanistan-oggi-tra-povert-e-speranze-620be715-0334-4771-bb2e-3106b512645e.html
[52] Per maggiori approfondimenti, Abate Matilda, La condizione delle donne in Afghanistan, 10 dicembre 2021, https://www.donne.it/condizione-donne-afghanistan-oggi/#gref
[53] Pelosi Gaia, Talebani, povertà e carestia: la situazione dell’Afghanistan oggi, 4 maggio 2022, orizzontipolitici.it, https://www.orizzontipolitici.it/talebani-poverta-carestia-situazione-afghanistan-oggi/
[54] Peverieri Anna, Afghanistan: il bilancio dell’ultimo attentato dell’Isis contro l’ospedale, 6 novembre 2021, sicurezza internazionale.luiss.it, https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2021/11/06/afghanistan-bilancio-dellultimo-attentato-dellisis-lospedale/
[55] Didonna Giuseppe, È tornato l’Isis in Afghanistan. Due attentati e 16 morti, 21 aprile 2022, agi.it, https://www.agi.it/estero/news/2022-04-21/isis-afghanistan-attentati-16465709/
[56] Rai News, Afghanistan, terremoto di magnitudo 6.1. I morti salgono a mille, 22 giugno 2022, rainews.it, https://www.rainews.it/articoli/2022/06/afghanistan-terremoto-di-magnitudo-6-punto-1-almeno-250-i-morti-9851b01a-8376-44c2-b556-22866cc64d69.html
[57] Battiston Giuliano, Pochi soldi, pochissimi alleati. Talebani alla prova del sisma, 24 giugno 2022, ilmanifesto.it, https://ilmanifesto.it/pochi-soldi-pochissimi-alleati-talebani-alla-prova-del-sisma
[58] Cozzolino Andrea, Afghanistan, da questo quadro desolante viene fuori un mondo meno sicuro, ilfattoquotidiano.it, 19 agosto 2021, Afghanistan, da questo quadro desolante viene fuori un mondo meno sicuro – Il Fatto Quotidiano
[59] Giunchi Elisa, Afghanistan, da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, op. cit., pp. 144-153.