scarica il file in pdf – un mondo in ebollizione – ottobre 2023- sanfelice (1)
UN MONDO IN EBOLLIZIONE
Amm. Sq. Ferdinando SANFELICE di MONTEFORTE
Introduzione
L’attenzione delle opinioni pubbliche occidentali è concentrata sempre più sulla guerra all’ultimo sangue tra Russia e Ucraina, che sta provocando rovine diffuse e, soprattutto, una vera e propria ecatombe: facendo una media tra le cifre fornite dalle varie fonti, si può stimare che, ad oggi, l’Ucraina abbia sofferto almeno 400.000 morti, tra civili e militari, mentre le valutazioni sul numero delle perdite avversarie oscillano in modo significativo, anche se tutti parlano di cifre ormai superiori ai 100.000 militari russi caduti.
Il fatto che impressiona di più è che nessuna delle due parti avverta ancora, a un livello sufficiente, il fenomeno della “stanchezza della guerra”, l’elemento prodromico di ogni trattativa di pace, malgrado i lutti e le distruzioni che il conflitto sta provocando.
La “stanchezza della guerra”, un sentimento diffuso tra la popolazione – e per riflesso dall’opinione pubblica – è quasi sempre la conseguenza di perdite dolorose per la popolazione, unite alla mancanza di risultati. Questo sentimento diffuso si è sempre rivelato decisivo per spingere l’opinione pubblica a insistere perché il governo ponesse fine a un conflitto, e di solito è benefico, in quanto si manifesta prima che avvenga il crollo catastrofico della Nazione. Inoltre, tanto meno l’obiettivo della guerra è condiviso dal popolo, tanto prima questo sentimento si manifesta.
Tra i numerosi, possibili esempi di questo fenomeno, vale la pena di citare quello dell’Unione Sovietica, quando l’Armata Rossa, che dovette ritirarsi dall’Afghanistan dopo aver subito poco più di 14.000 perdite (ai cittadini russi non importava nulla dell’Afghanistan) e gli Stati Uniti dove, al raggiungimento dei 50.000 morti nella guerra del Vietnam, la pressione dell’opinione pubblica divenne così forte da convincere il governo a ritirare le proprie truppe da quel teatro così remoto per il popolo americano, anche se l’intervento americano era stato giustificato come una crociata contro il Comunismo.
Non è questo il caso, come si è appena visto, della guerra in Ucraina: i combattimenti continuano, sempre più violenti, e le parti non danno ascolto ai numerosi negoziatori, che vanno dall’ONU all’Arabia Saudita, dalla Turchia alla Santa Sede, i cui sforzi cozzano contro un muro di odio tra le due parti, così forte da rendere impossibile alcun accordo. L’impressione è che almeno una delle parti sia decisa a conseguire il successo totale, mentre l’altra vorrebbe consolidare le conquiste effettuate. In questo dialogo tra sordi, ambedue le popolazioni soffrono, essendo vittime di un vero e proprio massacro.
Più in generale, va detto che, anche come conseguenza del conflitto russo-ucraino, si notano tre fenomeni:
- sul piano internazionale si nota un progressivo deterioramento dei rapporti tra le Nazioni, che si stanno schierando a favore di uno o dell’altro contendente, un fenomeno di polarizzazione già verificatosi più volte in passato, e sempre con effetti rovinosi sui rapporti internazionali;
- le cosiddette “Grandi Potenze” stanno intensificando una guerra economica tra loro, malgrado nessuna di loro abbia le finanze in ordine, o quantomeno veda la propria crescita economica ridursi a livelli allarmanti;
- l’indebolirsi di queste potenze, per effetto della guerra tra loro, incoraggia alcune Nazioni minori a sistemare contenziosi nei riguardi di loro vicini che, prima, godevano della protezione di una grande potenza, per paura di un suo intervento: quanto sta avvenendo nel Nagorno-Karabakh è l’esempio più recente di quanto l’Azerbaijan ritenga la Russia non più in grado di proteggere l’Armenia.
In Italia, la focalizzazione sulla guerra russo-ucraina fa dimenticare che tutto il mondo è ormai in ebollizione, e i conflitti, i colpi di Stato e le guerre civili sono sempre più numerosi, mentre la polarizzazione generale in due campi sempre più contrapposti rende più difficile ai negoziatori concordare un’azione pacificatrice, con l’ONU che non riesce più a sostituire, come avrebbe voluto fare fin dal la sua nascita, l’ottocentesco “Concerto delle Potenze”, che riuscì a ritardare fino al 1914 il conflitto all’ultimo sangue tra le Nazioni europee.
L’aspetto che sfugge ai più, specie in Italia, è che sono proprio le conseguenze di questi conflitti meno noti a colpirci direttamente. Infatti, a causa loro il numero dei rifugiati sta crescendo esponenzialmente, tanto che il rapporto annuale dell’Alto Commissariato per i rifugiati (UNHCR) parla di oltre 117 milioni di persone che hanno dovuto lasciare le proprie case[1]. Queste cifre mostrano che, su una popolazione mondiale di quasi 8 miliardi di persone, lo 1,4% è colpito dalle conseguenze dei conflitti in corso.
Dove queste vittime dei conflitti cerchino di andare ci è ben noto: la loro unica speranza è di arrivare nel Nord del mondo, dove si gode di un livello di vita generalmente adeguato e, soprattutto, i rischi per la propria sopravvivenza sono decisamente minori, rispetto al luogo che hanno dovuto abbandonare.
Non è questo un fenomeno imprevisto. Già nel 1994, uno studioso britannico, Paul Kennedy, aveva notato che:
“esiste uno scollamento fra le aree del mondo dove si trovano le ricchezze, la tecnologia, condizioni di buona salute, ed altri benefici, e dove vivono le generazioni che aumentano velocemente (in numero, ma) posseggono poco o nulla di questi benefici. Un’esplosione della popolazione in una parte del globo ed un’esplosione della tecnologia nell’altro non è una buona ricetta per un ordine internazionale stabile”[2].
Non è quindi un caso che il nord del mondo, specie l’Europa e gli Stati Uniti, si senta assediato dalla crescente migrazione dai Paesi vittima di questi conflitti, alcuni dei quali – specie quelli interni ad alcune Nazioni di altri continenti – non ci sono noti nella loro complessità.
Appare quindi quantomeno opportuno passare, sia pur brevemente, in rassegna almeno alcuni conflitti tra i più sanguinosi, ed elencare in forma ancor più sintetica gli altri, anche perché dobbiamo capire che, se la situazione generale della conflittualità non si riduce, saremo sempre più assediati da torme di disperati che affrontano pericoli indicibili alla ricerca di una vita migliore in Europa e nell’America del Nord.
I conflitti senza fine
Per questa rassegna è giusto avvalersi, tra gli altri, di uno studio del Centro Studi di Politica Internazionale (Cespi), dedicato ai conflitti nel mondo. In particolare, questo Centro si avvale dei dati del “L’Uppsala Conflict Data Program /UCDP (che) è il principale fornitore mondiale di dati sulla violenza organizzata, (stima anzitutto che) nel 2022 le vittime della violenza organizzata sono aumentate di un impressionante 97 per cento rispetto all’anno precedente, passando da 120.000 nel 2021 a oltre 238.000, rendendo il 2022 l’anno più letale dai tempi del genocidio del Ruanda nel 1994”[3].
Il programma di Uppsala classifica come “guerre” i conflitti che provocano più di 1.000 morti in un anno. In realtà, vi sono conflitti che superano di gran lunga questa cifra, raggiungendo una dimensione, in termini di perdite umane, che colpisce per la sua drammaticità, fino a superare, in alcuni casi di gran lunga, le perdite umane della guerra russo-ucraina.
Basandoci sul numero delle perdite umane, infatti, la prima sorpresa è che il conflitto più sanguinoso, che oltretutto dura da più tempo, sia la guerra civile in Myanmar (Birmania). Già nel 1940, un gruppo di intellettuali del Paese, poi noto come il gruppo dei “Trenta Compagni” si recò in Giappone, per ricevere un addestramento militare, allo scopo di scatenare una lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Questi intellettuali, il più famoso dei quali divenne Aung San, presero le redini del governo dopo l’occupazione del Paese da parte dell’Esercito Imperiale del Giappone, salvo poi a passare dalla parte degli Alleati occidentali, quando divenne imminente la sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra mondiale.
Al termine della guerra, nel 1945, il governo di Londra iniziò i negoziati per concedere l’indipendenza birmana, che fu proclamata il 4 gennaio 1948. Aung San, che apparteneva all’etnia maggioritaria dei Bamar, cercò di stringere un accordo con le minoranze del Paese, che culminò con l’accordo di Pangong, ma fu assassinato poco dopo, e l’accordo rimase lettera morta.
Da allora, una serie di rivolte sconvolse il Paese. Come accade spesso, vi furono interferenze straniere che complicarono il conflitto, facendolo degenerare. Anzitutto si manifestarono significative interferenze cinesi, che cercarono di mettere al potere il locale Partito Comunista. La Birmania, infatti, era appartenuta al Celeste Impero per secoli, fino all’occupazione britannica nell’Ottocento, e la nuova dirigenza cinese, il cui programma è da sempre quello di annullare gli effetti di quello che chiamano “il secolo dell’umiliazione”, voleva ripristinare il secolare dominio su quella Nazione.
Le altre Potenze, insieme ai Paesi confinanti, erano intenzionate a sfruttare per i propri interessi l’insofferenza delle numerose minoranze etniche, che volevano l’indipendenza o, in via subordinata, un elevato grado di autonomia dal governo di Yangon. Nessuno, purtroppo, ha intrapreso un’azione decisa per porre fine alle violenze che piagavano questo giovane Stato.
Tra colpi di Stato militari e rivolte represse nel sangue, la situazione di guerra civile è continuata fino ai nostri giorni; l’ultima sollevazione, in ordine di tempo, delle minoranze birmane, è quella dei Rohinga, la cui repressione è stata talmente feroce da occupare, sia pure per breve tempo, le prime pagine dei giornali occidentali. Si calcola, in definitiva, che al giorno d’oggi siano morte tra le 180.000 e le 200.000 persone, e non si vede alcuna possibilità di una pacificazione.
Non meno sanguinosa è la serie di guerre sta piagando l’Etiopia. In rapida successione, il Paese ha visto in primo luogo l’invasione dell’Ogaden da parte della Somalia, nel 1977, respinta grazie all’intervento cubano. Poi sono scoppiate la guerra d’indipendenza dell’Eritrea, nel 1998 e, dopo un intervallo nel quale sembrava fossero finiti i conflitti in Etiopia, nel 2018 è iniziato il tentativo di secessione degli Amara, nel Tigrai. Secondo le varie stime, i morti, tra civili e combattenti, a causa di queste guerre, oscillano tra i 300.000 e i 600.000.
Il 2 novembre 2022 è stato firmato un accordo di cessate il fuoco, ma la tensione è ancora alta. Il governo di Addis Abeba non vuole rinunciare a una parte così importante del proprio territorio, per cui, senza un accordo di pace che soddisfi le due parti, si può prevedere che la guerra riprenda, ancor più drammatica rispetto agli anni scorsi.
Poco più a nord, la situazione del Sudan, anch’esso ex colonia britannica, è altrettanto drammatica. Sin dai primi momenti dopo aver ottenuto l’indipendenza, nel 1956, scoppiò un conflitto tra il governo centrale, che cercava di imporre la religione islamica come collante nazionale, e la popolazione delle regioni meridionali, che rifiutava di convertirsi.
La cosiddetta “Prima Guerra Civile” si protrasse fino al 1972, quando l’accordo di Addis Abeba consentì un compromesso tra le parti. Il Sud del Sudan ottenne un elevato grado di autonomia, e questo consentì l’inizio di uno sviluppo economico, peraltro mal gestito dal governo di Karthoum, tanto che il malcontento crebbe soprattutto nel Sud, tagliato fuori dallo sviluppo del Paese. Nel 1983, ad aggravare la situazione, vi fu il secondo tentativo di imporre la Sharia, come legge dello Stato, e la guerra civile riprese.
Nel 2011 il Sudan del Sud ottenne l’indipendenza, ma le fazioni interne al nuovo Stato continuarono a combattersi fino al 2020, causando oltre 400.000 morti. In definitiva, la serie di guerre intestine al Sudan, prima e al nuovo Stato, secondo i calcoli più attendibili, avrebbe provocato almeno due milioni di morti e quattro milioni di rifugiati.
Non meno drammatica è la situazione dello Yemen, un Paese abitato da “Un popolo nobile, ingiustamente misconosciuto dalla grande opinione generale”[4], che affascina chiunque vi abbia vissuto. Il conflitto è seguito con attenzione dalle Cancellerie di tutto il mondo, mentre, al contrario, le opinioni pubbliche ignorano quanto vi accada, e non sanno che la sua storia è un dramma senza fine, che dura da quasi due secoli.
Una delle cause che hanno alimentato il conflitto, per colpa delle interferenze esterne, è la posizione geografica del Paese, vera porta d’ingresso nel mar Rosso e, da lì, nel mar Mediterraneo. L’altra è la differenza di fede tra le popolazioni del Nord, sciite, e quelle del Sud, sunnite, un fatto che ha spinto l’Iran da una parte e l’Arabia Saudita dall’altra a interferire con le dinamiche interne allo Yemen.
Da sempre preda di lotte intestine e di tentativi di conquista da parte delle potenze asiatiche o africane, essendo all’epoca il Paese uno tra i principali produttori di caffè, la vita dello Yemen, all’epoca un regno da sempre vicino all’Impero Ottomano, pur mantenendo la propria indipendenza, si complicò per la crescente attenzione europea verso la possibilità di accorciare la via del commercio tra l’Europa e l’Asia, scavando un canale tra Suez e Porto Said, nel Sinai, inaugurato nel 1869.
A dire il vero, il progetto di quello che oggi viene chiamato il Canale di Suez non era nuovo, visto che i Romani prima, gli Arabi poi, e persino i Veneziani avevano pensato di creare questo collegamento diretto tra il Mediterraneo e il mar Rosso, ma solo nel XIX secolo, grazie alla tecnologia, che aveva fatto passi da gigante, fu possibile considerare fattibile questa impresa tanto ambiziosa.
Nel frattempo, mentre i lavori di scavo del Canale erano appena iniziati, preveggente come al solito, il governo di Londra profittò dell’incaglio e successivo saccheggio di un mercantile britannico per conquistare Aden nel 1839, ed estorcere al Sultano un accordo di concessione del porto, previo pagamento di una somma annuale. Da questa base navale, posta all’imboccatura dello Stretto di Bab-el-Mandeb, la Royal Navy fu in grado di controllare i traffici del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano settentrionale, intervenendo quando necessario, come nel caso della lotta contro la tratta degli schiavi nell’oceano Indiano, che durò fino al 1880.
Dieci anni dopo, nel 1849, l’Impero Ottomano, timoroso di un’espansione britannica nella Penisola Arabica, decise di rendere permanente la propria presenza in Yemen. Con l’apertura del Canale di Suez, la Sublime Porta (così era chiamato il governo ottomano) volle conquistare lo Yemen, e inviò nel 1872 un esercito, che arrivò ad occupare Sanaa l’anno successivo.
Il dominio ottomano, però, fu caratterizzato da una serie di rivolte, tanto che ad Istanbul si pensò più di una volta di ridurre la propria presenza a un mero fatto simbolico. Nel 1911, quindi, lo Yemen del Nord ottenne l’indipendenza, con gli Ottomani che controllarono la parte meridionale fino al 1918.
Con la fine dell’Impero Ottomano, il sogno del “Grande Yemen” riprese vigore, e una feroce guerra civile piagò di nuovo il Paese, resa sempre meno conclusiva dall’appoggio britannico alla fazione del Sud, e dal desiderio della dinastia Saudita di conquistare lo Yemen. Solo nel 1934 si giunse a un compromesso, con il rinnovo della concessione britannica di Aden per ulteriori 40 anni, consentendo all’Impero Britannico di bloccare nel mar Rosso le navi italiane di stanza a Massaua.
La pace sociale, però, durò poco, e nel 1948 vi fu l’ennesima rivolta, che costrinse il re a riconquistare Sanaa, presa dai rivoltosi. Nel 1956 lo Yemen firmò un trattato difensivo con l’Egitto e la Siria, e nel 1958 aderì al progetto federativo della Repubblica Araba Unita, pur rimanendo un regno. In quel periodo, dal 1955 al 1959 lo Yemen si avvicinò anche all’Unione Sovietica, ottenendo finanziamenti e armamenti. Questa amicizia, però, finì bruscamente, con la cacciata dei consiglieri sovietici, accusati di interferire con gli affari di Stato.
Una parte della popolazione, però, favoriva la transizione repubblicana, sostenuta in questo anche dal governo del Cairo. Si arrivò quindi nuovamente alla guerra civile, nel 1962, e alla secessione dello Yemen del Sud nel 1968, che riuscì a diventare indipendente grazie all’appoggio egiziano. Nel 1967 i Britannici decisero di lasciare Aden, che fu incorporata nello Yemen del Sud.
Pochi anni dopo, la guerra tra i due Stati riprese, prima nel 1972 e poi nel 1979. Nel 1986, infine, lo Yemen del Sud fu preda dell’ennesima guerra civile, che lo indebolì a tal punto da rendere la sua dirigenza pronta ad accettare la riunificazione, che ebbe luogo nel 1990. Passarono solo due anni, e lo spettro della secessione si ripresentò, sotto forma di proteste per la pretesa marginalizzazione economica del Sud, tagliato fuori dallo sviluppo generale del Paese. Ancora una volta la guerra civile causò migliaia di vittime, con l’Arabia Saudita che appoggiava i ribelli del Sud, finché, nel 1994 non si raggiunse di nuovo un accordo tra le parti.
Un piccolo esempio di come questo succedersi di lotte intestine, quasi sempre fomentate dall’esterno, abbia avuto strascichi del tipo più diverso sulle attività di governo yemenita è dato dal fatto che solo nel 2000 sia stato firmato l’accordo per la definizione delle frontiere tra lo Yemen e l’Arabia Saudita.
L’instabilità del Paese aumentò rapidamente per una serie di fattori, tra i quali l’avvento di “al Qaeda nella Penisola Arabica” (AQAP) ed il vuoto di potere che seguì alla caduta del lungo regime di Saleh in seguito alle Rivolte delle c.d. Primavere arabe. AQAP, che si fece conoscere con i noti attentati contro navi da guerra americane, divenne in pochi anni uno dei maggiori gruppi affiliati all’organizzazione centrale, nonché la principale promotrice del c.d. terrorismo “fai da te”, con attacchi condotti nelle città occidentali da giovani che ivi erano nati o comunque vivevano, catalizzando sul Paese l’attenzione dei servizi intelligence di tutto il mondo. Le rivolte, poi, aumentarono l’instabilità interna, finché l’ingovernabilità del Paese divenne tale da indurre l’Arabia Saudita a intervenire, alla testa di una coalizione di Paesi arabi, contro gli Yemeniti del Nord, di fede sciita, appoggiati dall’Iran. I cosiddetti “ribelli Houti” sono infatti sciiti zaiditi, e fidando sull’appoggio del governo di Teheran avevano cercato tra il 2014 ed il 2015 di riprendersi il controllo del governo mediante l’ennesimo colpo di Stato. La loro resistenza alle forze della coalizione, infatti, non sarebbe stata possibile senza l’appoggio esterno dei loro correligionari.
Le perdite subite dalle truppe saudite hanno convinto il governo di Riad a iniziare, nel 2022, le trattative per un cessate il fuoco con i “ribelli Houti”. L’accordo di pacificazione tra l’Arabia Saudita e l’Iran, firmato nel marzo 2023, grazie alla mediazione cinese, ha raffreddato le ostilità che pur continuano in questi giorni.
Chi avesse creduto che l’ennesima guerra nello Yemen fosse semplicemente una “guerra per procura” tra Arabia Saudita e Iran si ritrova, quindi, a scoprire quanto profonde siano le inimicizie tra le popolazioni dello Yemen.
Stabilire le perdite umane di questa serie interminabile di conflitti e di guerre civili nello Yemen è quasi impossibile. Solo il conflitto di questi ultimi anni avrebbe causato, stando a fonti ONU, oltre 377.000 morti tra i civili [5], mentre le perdite tra i militari delle due parti, secondo valutazioni necessariamente approssimate, dovrebbero superare i 150.000 morti.
Il panorama complessivo dei conflitti armati
Quanto detto finora, purtroppo, non è esaustivo. Ci sono stati e ci sono, in alcune aree del mondo, massacri che hanno anche comportato un numero ben più elevato di morti, rispetto ai conflitti già citati, spesso con l’aggravante di essere stati commessi in tempi estremamente brevi. Per questo è bene affrontare il problema su un piano più generale.
Gli elenchi delle guerre civili e dei conflitti tra Stati, compilati dalle varie organizzazioni che si occupano di queste drammatiche situazioni, pur presentando differenze, mostrano un quadro desolante, come se, in questo mondo sovraffollato, si voglia ridurre la popolazione con i metodi violenti degli stermini.
Anche se alcuni di questi sono intermittenti, per carenza di armi, e altri sono “congelati” grazie agli sforzi della comunità internazionale, il loro potenziale esplosivo non è assolutamente da sottovalutare. La differenza, rispetto ai conflitti considerati come “maggiori” dai principali Centri Studi, è che queste lotte, spesso sanguinose, si svolgono in aree da noi non conosciute a sufficienza, per cui i ripetuti tentativi di pacificazione si sono spesso risolti in un nulla di fatto, o al massimo hanno prodotto un semplice e poco duraturo armistizio.
Iniziamo dall’Africa, un continente che gli Europei hanno sfruttato, fino a spingere le popolazioni locali a cacciarli, e che ora vede la Cina e la Russia tentare di esercitare un’influenza paragonabile a quella delle Potenze coloniali, fino ad ora con qualche successo.
Anzitutto, nell’analizzare le cause di questi conflitti, dimentichiamo spesso che stiamo parlando non di Nazioni, bensì di Stati i cui confini sono stati tracciati con il righello nelle Cancellerie europee e poi avallati, previe opportune modifiche, da una serie di congressi a livello continentale.
In ognuno di questi Stati vi sono etnie prevalenti ed etnie minoritarie, con queste ultime che, spesso, hanno consimili al di là delle frontiere con gli Stati confinanti. La loro sorte, di solito, è quella di popoli discriminati, fino alla morte per fame. L’aspetto più tragico è che, mentre gli aiuti che provengono dai governi occidentali e dall’Unione Europea vanno a finire per arricchire le etnie maggioritarie, solo l’opera delle ONG consente alle etnie minoritarie di sopravvivere. Basti citare, a titolo di esempio, la rivolta del Biafra del 1967/1970 e la guerra civile tra i Tutsi e gli Hutu del 1994, che si trasformò in un vero e proprio genocidio.
La perdita di influenza delle Nazioni europee non ha solo aperto nuove possibilità a Cina e Russia, ma ha dato campo libero alle Nazioni integraliste che cercano di islamizzare quello che un tempo veniva chiamato il “Continente Nero”, bisogna dire con notevole successo, attirando le etnie maggioritarie, decisamente più influenti delle altre.
La serie di colpi di Stato militari che stanno caratterizzando, in questi anni, l’area sub-sahariana, appare una reazione non solo contro gli Europei, ma anche contro quei centri di potere politico a forte connotazione islamica, che avevano effettuato la loro scalata al potere usando il metodo democratico.
Le elezioni, infatti, sono l’arma che consente alle etnie maggioritarie di prevalere, senza alcuna concessione alle altre che, spesso, devono scegliere tra la ribellione – caso piuttosto frequente – e la migrazione verso il Nord del mondo. Le frontiere tra Stati, poi, sono generalmente contestate, con conseguente tensione tra quei governi che rivendicano aumenti territoriali e quelli che non li vogliono concedere.
Non dimentichiamo, infine, la lotta per il possesso dell’acqua: tra gli Stati a monte e quelli a valle dei grandi fiumi africani è ripresa – se mai si fosse interrotta – la gara allo sfruttamento di questa preziosa risorsa a spese altrui. Ricordiamo che questa disputa secolare è stata persino fonte di ispirazione di un’opera lirica, l’Aida del grande Verdi, un ulteriore segno che trovare un’equa spartizione di questa risorsa non è mai stato semplice, nei secoli.
Nessun Paese e, soprattutto, nessuna Organizzazione europea è stata finora capace di convincere i vincitori delle elezioni a dare un minimo di spazio politico ed economico alle minoranze, né tantomeno a regolare le dispute sui confini e sulla spartizione dell’acqua in modo soddisfacente per ambedue le parti.
Il continente americano, poi, è sempre più preda di una tensione crescente tra gli Stati del Centro e Sud America, internamente instabili e sempre meno propensi ad accettare l’egemonia, prevalentemente economica, degli Stati Uniti su di loro. Non vi è nulla di nuovo in questo tipo di rapporto turbolento; nel passato, infatti, queste tensioni spesso sfociarono in guerre aperte e in incursioni di eserciti oltre frontiera tra Stati confinanti, l’ultima delle quali, nel 1913, rese famoso il generale John Pershing, tanto da indurre il governo di Washington a nominarlo, nel 1917, comandante del Corpo di Spedizione americano in Europa.
Ora, le tensioni perdurano ma i mezzi sono cambiati: gli Stati più attivi nel contestare la predominanza statunitense usano mezzi da “guerra ibrida”, ricorrendo all’esportazione di droghe e all’invio di migranti, tutti desiderosi di trovare nuova e più agiata vita negli USA, tanto da rendere il Rio Grande, che segna il confine tra gli Stati Uniti e il Messico, una frontiera estremamente calda. A queste misure si aggiungono, spesso, da un lato provvedimenti economici che sfavoriscono il governo di Washington, e dall’altro la ricerca di sostegno, anche finanziario, alla Russia e alla Cina.
Non va dimenticata, poi, l’Asia. In questo continente possiamo osservare che continua, da un lato, la lotta sorda e sottotraccia per il dominio delle sorgenti dei grandi fiumi che sgorgano dalle imponenti catene montuose dell’Himalaya e dell’Hindu Kush che si trovano al centro della massa continentale, e dall’altro lato sono sempre più vive le contese marittime, queste ultime particolarmente vive tra la Cina e i propri vicini, specie con la Potenza regionale concorrente, l’India, ma anche i Paesi dell’Asia Centrale, decisi a tutelare i propri consimili posti sotto il governo di Pechino.
Anche l’Asia occidentale, poi, vede crescere le tensioni tra Sud e Nord, anch’esse in atto da secoli, tra alti e bassi, con la componente meridionale, in prevalenza islamica, che si confronta periodicamente con l’espansionismo verso Sud della Russia.
Non si può omettere la guerra civile in Siria, che sta coinvolgendo anche le Grandi Potenze. Ma, in questi giorni l’area è tornata a vedere un altro conflitto armato, nel Caucaso, un’area che si riteneva, almeno sulla carta, pacificata. La sua conquista da parte russa, dopo che l’Impero Ottomano l’aveva strappato alla Persia pochi secoli prima, ha acceso un fuoco che brucia ancora. Bisogna ricordare, sia pur brevemente, la tormentata storia dell’avanzata russa lungo il Caucaso, la striscia di terra posta tra il mar Nero e il mar Caspio.
La Russia iniziò la propria penetrazione nella regione annettendo la Georgia nel 1801. Pochi anni dopo, lo Zar dichiarò guerra all’Impero persiano nel 1804, che avanzava pretese sull’attuale Azerbaijan, sconfiggendolo. La vittoria russa fu sanzionata il 24 ottobre 1813 dal Trattato di Gulistan, che poneva termine alla guerra, assegnando alla Russia parte dell’Azerbaijan e l’altopiano del Nagorno-Karabakh. Va notato che questa guerra si era svolta mentre la Russia era duramente impegnata contro Napoleone (che si era alleato con lo Shah), per cui a Teheran ci si era illusi di ottenere tutto ciò che rivendicava la Persia, puntando sulla speranza che la Russia non avrebbe potuto inviare forze notevoli per contrastare l’invasione.
Come accade spesso, questa sconfitta non fu digerita e a Teheran si continuò a meditare la vendetta, finché, nel 1826 l’esercito persiano tentò di nuovo di riconquistare i territori perduti, profittando questa volta della guerra in atto tra la Russia e la Turchia.
Di nuovo il tentativo finì in un insuccesso, tanto che i Russi conquistarono persino Tabriz, nel Kurdistan iraniano. Con il trattato di Turkmenchay del 2 febbraio 1828 i Russi ottennero parte dell’Armenia, consolidando il loro possesso del Nagorno-Karabakh.
Per completare il controllo del Caucaso, allo Zar non restava che conquistare il lato occidentale della regione, e in particolare la linea costiera orientale del mar Nero, controllata dall’Impero Ottomano. Quella zona litoranea, però, era montagnosa, non disponeva di approdi, a parte Poti, ed era “abitata da tribù bellicose, in maggioranza seguaci dell’Islam e quindi ostili ad un’estensione dell’influenza russa”[6]. Nella zona, il centro di maggiore importanza strategica e commerciale era la città di fortificata di Erzerum.
L’esercito russo, nel 1828, poco dopo la vittoria sui Persiani, al comando del generale Paskievich, che aveva condotto con successo anche la campagna precedente, conquistò anzitutto Poti, in modo da poter ricevere rifornimenti e rinforzi via mare, e si diresse quindi verso Kars, conquistandola, per poi prendere Akhalsik, prima della sosta invernale.
Ottenuti, durante questo periodo di tregua, i rinforzi necessari, Paskievich fu in grado di respingere, nella primavera successiva, la controffensiva ottomana, e di inseguirla fino oltre Erzerum, che cadde nelle sue mani. Saggiamente, il generale, giunto in vista di Trebisonda, decise di fermarsi, e poco dopo la Pace di Adrianopoli sanzionò parte delle sue conquiste, stabilendo il confine tra i due imperi poco ad est di Erzerum e Kars, che tornarono alla Sublime Porta.
Ma il Caucaso, sotto il dominio russo, non aveva trovato pace: le tribù delle montagne iniziarono una guerriglia feroce, che non dava respiro agli occupanti, e terrorizzava le popolazioni cristiane dell’Armenia e della Georgia. Questa lotta durò ben oltre la guerra di Crimea (1853-1855), durante la quale i Russi respinsero il nemico ottomano, assediando Kars. Questa volta, però, le tribù delle montagne avevano trovato un leader geniale, Shamyl, che costrinse l’esercito russo a fermarsi, minacciandone le retrovie, dando così respiro all’esercito ottomano, anche se questi sforzi non furono sufficienti a risollevare le sorti della Sublime Porta.
Quest’ultima ricevette rinforzi via mare, grazie all’assistenza britannica, e tentò, sotto il comando di Omar Pasha, di respingere i Russi, senza peraltro riuscirci, tanto che pochi mesi dopo la fortezza di Kars dovette arrendersi, malgrado la sua strenua resistenza.
La guerra russo-turca del 1878-79 vide anch’essa una lotta feroce nel Caucaso meridionale, e altrettanto accadde nella Prima Guerra Mondiale. La frontiera si stabilizzò solo nel 1921, grazie agli accordi tra Kemal Atatürk e Vladimir Il’ič Lenin, che furono formalizzati nel Trattato di Kars del 23 ottobre 1921.
Questo lungo resoconto di guerre senza fine nel Caucaso mostra che la regione, fin da tempi remoti, riveste un’importanza strategica e attira il desiderio, da parte delle Potenze, di influire sugli eventi, continuando a tormentarla. La continuazione dei conflitti, nella regione, è alimentata dalla presenza, sia a nord sia a sud della catena del Caucaso, di popolazioni cristiane e musulmane, con queste ultime che in parte seguono la Sunna e in parte – specie in Azerbaijan – la Shia. La loro insofferenza verso quelli che chiamano “I Moscoviti” e i loro alleati, gli Armeni, è stata confermata dalle rivolte cecene e daghestane, oggi dimenticate, sia pure dopo pochi anni dalla loro fine, specie grazie alla decisione cecena di appoggiare l’invasione russa dell’Ucraina.
Neanche i Cristiani, poi, sono tutti favorevoli al governo di Mosca, tanto che la guerra in Georgia del 2008 ha mostrato quanto profonde siano le inimicizie tra gli ex sudditi cristiani dell’Impero sovietico e il governo di Mosca. Più a sud della Georgia, come possiamo vedere in questi giorni, la rivalità e le contrapposte rivendicazioni territoriali tra Armenia e Azerbaijan creano una situazione di guerre a intermittenza, focalizzate sulla regione montagnosa, appunto, del Nagorno-Karabakh.
Quanti morti abbia comportato tutta questa serie di conflitti, in due secoli e mezzo di lotta, non è possibile stabilire. Dobbiamo, purtroppo, accettare che anche i cosiddetti “conflitti congelati”, come quello appunto del Nagorno-Karabah, siano destinati, nel tempo a riaccendersi, con conseguenti tragedie per le parti in causa.
I rischi immanenti e le possibili soluzioni
Come si può notare, scorrendo quanto detto finora, la maggior parte di queste guerre, conflitti e tensioni ha radici che affondano in tempi lontani, e che sono, quindi, difficili da contenere. È ben vero che la Guerra Fredda esercitò un effetto dissuasivo nei confronti delle cosiddette “guerre locali”, come venivano allora chiamate, riducendone il numero, sia pure meno di quanto si creda, ma creare di nuovo una situazione mondiale di confronto tra le Grandi Potenze, nella quale la popolazione mondiale viva sotto l’incubo di una catastrofe nucleare, non appare una soluzione praticabile, a dir poco.
In effetti, nel corso della Guerra Fredda si sono avuti conflitti oltremodo sanguinosi, come la guerra di Corea e quella del Vietnam, in cui alcune Potenze, agendo tramite i loro alleati, hanno cercato di indebolire i propri concorrenti diretti, impegnati in prima persona nel vano tentativo di evitare che il blocco avversario conquistasse nuove posizioni. Non erano “guerre per procura” vere e proprie – o, meglio, lo erano per una parte sola in conflitto – ma il sangue versato non è stato poco.
Allora è necessario, anzitutto, capire che l’ebollizione del mondo è sempre esistita, ma è anche necessario prendere anche atto che l’aumento della popolazione mondiale aggrava i contenziosi tra i governi, sempre più afflitti dalla difficoltà di procurare benessere ai propri concittadini, ma anche incapaci di sedare le tensioni interne tra le varie componenti etniche e/o sociali in ogni Paese.
La terza realtà, anch’essa dura da accettare, è che l’indebolimento delle “Grandi Potenze” è un fattore che aggrava, non diminuisce, l’instabilità e la voglia, da parte di attori minori, di “sistemare” contenziosi con i propri vicini mediante l’uso della forza.
Infine, su tutto aleggia il fatto che, se si manca di rispetto verso gli altri, o vengono violati i diritti di un terzo, si provoca un’inimicizia destinata a durare generazioni: l’odio collettivo è un sentimento decisamente più durevole della gratitudine. Noi Europei, con il nostro passato coloniale, abbiamo lasciato strascichi di questo tipo che stentano a calmarsi, e quindi dobbiamo essere doppiamente prudenti nel trattare con i Paesi diventati indipendenti solo nel XX secolo, la cui ipersensibilità di fronte a nostri comportamenti è un aspetto da non dimenticare.
Ciò non toglie che esistano, e debbano esistere, “linee rosse” che non debbono essere superate da parte di alcuno. Quando i principi fondanti della società in cui crediamo o i nostri “interessi permanenti” vengono violati, abbiamo il diritto di difenderli, anche se l’uso della forza deve essere l’extrema ratio.
Se è vero, infatti, che in molti casi la parte più debole deve soggiacere alle pressioni del più forte, non si può dimenticare la favola dei Lillipuziani che riuscirono a legare Gulliver, benché egli fosse ben più grande di loro, per garantire la propria sopravvivenza, di fronte a questo pericolo sconosciuto.
Il rischio che i cosiddetti “conflitti minori” si espandano, fino a creare le condizioni per un conflitto generale, che distruggerebbe il mondo attuale, è quindi il problema principale da affrontare, specie in un momento come questo, in cui le stesse Grandi Potenze versano in difficoltà economiche, come è stato già accennato. L’Occidente, in particolare, si deve preoccupare per l’erosione progressiva della potenza economica statunitense, a causa dell’azione dei Paesi avversi al suo predominio continentale prima e mondiale poi.
Cosa fare, quindi, in un mondo nel quale l’ebollizione ha raggiunto punte ben più elevate rispetto al passato? L’Europa, già nel 2003, capì che portare la pace in un mondo così turbolento era una “missione impossibile”, se non si fosse proceduto con gradualità. La “Strategia europea in materia di sicurezza”, infatti, con notevole buon senso, notava che “è nell’interesse dell’Europa che i Paesi che ci circondano siano ben governati. I vicini impegnati in conflitti violenti, gli Stati deboli in cui fiorisce la criminalità organizzata, le società disfunzionali o una crescita demografica incontenibile alle sue frontiere sono tutti elementi che creano problemi per l’Europa”[7].
Se non si comincia dal proprio vicinato, infatti, non si riesce ad allargare l’area di benessere e di stabilità, fino a comprendere parti del mondo sempre più vaste. Purtroppo, l’impazienza dei governi occidentali ha portato spesso a dimenticare la necessità di affrontare i problemi apparentemente insolubili, agendo con perseveranza e gradualità.
La conferma di questa verità ci è data dal fallito tentativo di stabilizzare l’Afghanistan, da parte della NATO, che a parte gli errori che l’hanno caratterizzata, è una dimostrazione del fatto che non è possibile agire ovunque, senza limiti di distanza, ma bisogna arrivare lontano partendo dal proprio vicinato.
Sembrano lontani i giorni del 2016, quando fu pubblicata la Strategia Globale dell’Unione Europea, in cui si affermava, orgogliosamente che “L’UE promuoverà un ordine globale basato sulle regole, con il multilateralismo quale suo principio chiave e le Nazioni Unite al centro. Essendo noi un’Unione di Paesi di dimensioni da medie a piccole, abbiamo un interesse europeo condiviso nel fronteggiare il mondo insieme. Grazie al nostro peso combinato, possiamo promuovere regole concordate per contenere le politiche di potenza e contribuire a un mondo pacifico, giusto e prospero”.[8]
Oggi questa frase appare ormai appartenere a un’altra era, quando il massimo problema dell’UE era quello di stabilizzare i Balcani, altra area da sempre preda di sconvolgimenti e tragedie.
L’esame di fattibilità, prima di lanciare un’intera organizzazione in imprese ambiziose, è sempre un passo essenziale, anche perché aiuta i leader a conseguire una consapevolezza dei propri limiti. Oltretutto, se non ci si assicura la stabilità del “cortile di casa”, non ci si può dedicare a imprese lontane.
Non è questo solo un problema per l’UE: lo stesso vale per gli stessi Stati Uniti: se il governo di Washington non troverà un modus vivendi con gli altri Paesi del continente americano, la sua capacità di proiezione si rivelerà illusoria.
Per concludere, non ci si deve spaventare per la conflittualità, sempre più viva, che caratterizza il nostro mondo. Queste ondate di recrudescenza dei conflitti sono avvenute già più volte in passato, ma si deve capire che, spesso, nell’opera di riduzione delle conflittualità, tanti piccoli passi che si concludono con un successo sono meglio di grandi imprese dall’esito quantomeno incerto.
Infine, nelle attività di relazioni internazionali, sia quelle pacifiche sia quelle implicanti l’uso di strumenti economici o militari, bisogna soprattutto capire che le controparti vanno rispettate, senza pregiudizi sul loro assetto di governo.
A questo proposito, è necessario anzitutto accettare che non sempre la democrazia, che da noi, in Occidente, si è affermata dopo almeno due secoli di lotte, può diffondersi nelle altre parti del mondo in tempi brevi, e che comunque, tra le sue varie forme, bisogna incoraggiare (non pretendere) quella che consente di tutelare le minoranze. L’Italia ha imparato la dura lezione sulla necessità di rispettare le minoranze negli scorsi decenni, e ora può dare l’esempio agli altri. Ricordiamoci dei Lillipuziani! Senza la loro cooptazione nulla sarà duraturo.
Infine, bisogna capire le controparti, andando a fondo nell’analisi dei loro punti di forza e di debolezza, delle caratteristiche sociali, economiche e delle tensioni interne in primis dei Paesi che ci circondano. Non si può agire senza aver capito a fondo il contesto in cui vogliamo operare, pena l’insuccesso, l’indebolimento e, in alcuni casi, il tracollo.
Se non faremo così, la tendenza del mondo a trasformarsi in una giungla, nella quale prevalga la legge del più forte, non troverà alcun freno.
[1] UNHCR Global Appeal 2023. Pag. 10.
[2] P. KENNEDY, Preparing for the Twenty-first Century, Vintage Books, 1994, p. 331
[3] M. Zupi, I Conflitti armati dimenticati. CeSPI 2023, pag. 9.
[4] M. BOFFO, Yemen, l’eterno. Ed. Stampa Alternativa, 2019, pag. 10.
[5] GLOBAL CONFLICT TRACKER, War on Yemen. By Center for Preventive Action, 31 July 2023 https://www.cfr.org/global-conflict-tracker/conflict/war-yemen
[6] C. E. CALLWELL, The effect of Maritime Command on Land Campaigns since Waterloo. Ed. William Blackwood & sons, 1897, pag. 107.
[7] EU, Strategia europea in materia di Sicurezza. Un’Europa sicura in un mondo migliore. 12 dicembre 2003, pag. 7.
[8] UE, Shared Vision, Common Action. A Global Strategy for the European Union’s Foreign and Security Policy. June 2016, pag. 10.