TUNISIA – dicembre Scarica il file in PDF
La situazione securitaria della Tunisia,
tra riforme e minacce alla sua stabilità
Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte[1]
DICEMBRE 2017
Cooperazione con il nostro Paese e postura internazionale
Parlando di Mediterraneo molti sono i fattori che rendono utile un approfondimento sulla Tunisia, il Paese nel quale si accese la scintilla di quelle che poi vennero infelicemente ribattezzate “Primavere Arabe”, l’unico che ne uscì “indenne”, quello geograficamente più vicino a noi.
Il Paese divide, insieme alla Sicilia, il Mediterraneo in due bacini distinti, creando un passaggio ristretto, tra Capo Bon e Mazzara del Vallo, facile da controllare. Non meraviglia quindi che, anche per ragioni di vicinanza geografica, il nostro Paese abbia da tempo stretti rapporti con la Tunisia e abbia avviato negli anni numerosi programmi di collaborazione e cooperazione, fornendo altresì pieno sostegno a livello internazionale affinché venga coinvolta sempre più negli esercizi di dialogo regionale ed internazionale su tematiche quali la sicurezza, le migrazioni e lo sviluppo della Regione. Su invito italiano, ad esempio, il Presidente tunisino Essebsi ha partecipato ad alcune sessioni del Vertice di Taormina del G7 dello scorso maggio.
E’ innegabile, inoltre, come i recenti progressi che si stanno registrando a livello internazionale in tema di sicurezza del Mediterraneo siano dovuti anche alla partecipazione delle Autorità tunisine alle riunioni del Gruppo di Contatto dei Ministri dell’Interno del Mediterraneo Centrale in tema di rotte migratorie nel Mediterraneo Centrale: iniziativa avviata dal marzo 2017 su iniziativa italiana, che a fianco alla lotta al traffico di migranti e al terrorismo mira ad avere un approccio globale, che guarda anche alle implicazioni socio-economiche del fenomeno migratorio, ed alle cause profonde che ne sono l’origine.
Si ricorda altresì che soprattutto a partire dalla chiusura delle Ambasciate dei Paesi occidentali a Tripoli (come noto l’ultima Rappresentanza a chiudere fu nel febbraio 2015 quella italiana, che ha riaperto nel gennaio 2017), Tunisi è tra l’altro divenuta centrale per qualsiasi forma di dialogo e mediazione internazionale per la crisi libica.
Guardando ad altre “crisi” che stanno interessando il mondo islamico negli ultimi mesi, va sottolineato come in merito alle frizioni tra i Paesi del Golfo ed il Qatar le autorità tunisine ed i maggiori partiti operanti nel Paese, dal laico Nidaa Tounes agli islamisti di Ennahdha (vicini all’asse turco-qatarino), stanno cercando di mediare affinché gli animi si calmino e mantengono pertanto una posizione equidistante tra le parti.
Alla luce dei numerosi programmi di cooperazione internazionale attivi con la Tunisia anche nel campo della sicurezza e del ruolo che il Paese sta assumendo negli esercizi di dialogo regionale ed internazionale su questioni quali quelle dei migranti e del terrorismo internazionale di matrice jihadista, è pertanto opportuno soffermare brevemente l’attenzione sulla situazione securitaria interna della Tunisia e sulle correlazioni con le minacce provenienti dai Paesi contermini.
Situazione interna tunisina
A quasi sette anni dalla Rivoluzione dei Gelsomini è innanzitutto interessante interrogarsi su quale sia la situazione dell’unico Paese che da quei moti uscì senza esserne travolto e stravolto. Si è trattato di una rivoluzione che, scoppiata in Tunisia per ragioni soprattutto economiche, si è diffusa in quasi tutto il Nord Africa ed il Medio Oriente rovesciando regimi che governavano da decenni ma ho portato spesso, con l’illusione della democrazia occidentale, ad una instabilità che ancora oggi permane.
Non così fu in Tunisia, che riuscì a liberarsi del suo “uomo forte” senza subire la nascita di profonde spaccature che altrove portarono a lotte intestine, tristemente alimentate dall’esterno. Ma gli obiettivi che spinsero all’azione il popolo tunisino tra il dicembre 2010 ed il gennaio 2011 sono stati veramente raggiunti? E, soprattutto, le nefaste conseguenze che altrove hanno visto lo scoppio di guerre civili fratricide e di profonde lotte etnico-religiose, nonché una recrudescenza del terrorismo jihadista senza precedenti di cui anche noi in Occidente paghiamo le conseguenze, veramente non hanno toccato il Paese della Rivoluzione dei Gelsomini?
Le risposte non sono semplici, ma si può sin d’ora anticipare che naturalmente sarebbe da ingenui pensare che in Tunisia la Rivoluzione, solo perché incruenta, abbia portato tutti i risultati che i manifestanti volevano raggiungere. Dopo quasi un quarto di secolo, Zine El-Abidine Ben Alì ha lasciato il potere ed il Paese, ritirandosi a Jedda (Arabia Saudita), e molte riforme sono state avviate, ma siamo lontani dagli sperati obiettivi di equità sociale e ricchezza per tutte le fasce della popolazione, così come, malgrado gli ottimi risultati raggiunti, non si è totalmente arrestata la corruzione, né azzerata la disoccupazione. E con un’economia ancora fortemente in difficoltà ed un malessere sociale solo apparentemente più contenuto, il Paese non può essere indenne dai rischi del fondamentalismo islamico, con un terrorismo jihadista esogeno ed endogeno.
Nell’ambito di un processo che mirava ad istituzionalizzare anche le forme più radicali di salafismo, al suo interno la Tunisia ha infatti visto nascere e crescere la locale branca di Ansar al-Sharia (AaS-T), che inizialmente venne addirittura accettata quasi fosse un movimento politico ma è da anni stata messa al bando e combattuta. Malgrado ciò, essa persiste in varie zone del Paese e forti sono i suoi legami soprattutto con alcune branche libiche di Ansar al-Sharia (in particolar modo quella di Bengasi, AaS-B) e con Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), una delle più potenti organizzazioni affiliate al gruppo guidato da Al Zawahiri, che opera nel Paese soprattutto con il locale battaglione Uqba bin Nafi.
Importanti inoltre sono i rischi di infiltrazione da parte dei gruppi terroristi presenti nei Paesi contermini (Al Mourabitoun (AM) in primis, oltre alla già citata AQMI), nonché la paura che si diffonda soprattutto l’instabilità libica, anche alla luce dei legami con alcune tribù oltre-confine, nonché della continuità delle reti criminali tra i Paesi del Nord Africa (ragioni che hanno portato alla militarizzazione del confine libico).
In tutto questo, crescente è il ruolo in Tunisia dell’Islamic State (IS), che è riuscito ad attirare a sé migliaia di combattenti, reclutati tra i tunisini scontenti, che si sono lasciati facilmente radicalizzare e attirare nelle sue maglie sia nel teatro libico che in quello siro-iracheno, anche per sfuggire alle Autorità tunisine, apparentemente più attive nell’opera di repressione che di contro-radicalizzazione.
E quello dei foreign fighter di ritorno sarà nel prossimo futuro uno dei maggiori problemi che dovrà affrontare la Tunisia, il Paese islamico ad aver fornito il più elevato numero di combattenti ad IS in proporzione al numero di abitanti. IS ha infatti attirato a sé migliaia di giovani, uomini e donne, che come già detto sono partiti per lasciarsi indietro povertà e disoccupazione, e talvolta anche le forze di sicurezza tunisine che erano sulle loro tracce per gli evidenti segnali della loro radicalizzazione. Ai ragazzi venivano offerti potere, soldi, armi, donne; a queste ultime soprattutto casa, valorosi guerrieri e un posto ideale per crescere i bambini secondo i dettami del vero Islam; a tutti, infatti, si prospettava la possibilità di partecipare alla costruzione di un vero grande Stato Islamico, nel quale i principi dell’Islam ed i servizi offerti gratuitamente avrebbero rappresentato garanzia di un’ottima qualità di vita, sicuramente migliore di quella che si lasciavano alle spalle.
La realtà si è poi rivelata diversa, ed ora migliaia di tunisini vivono in Libia, così come in Siria ed Iraq. Sono piccoli orfani, cresciuti secondo principi di un’interpretazione distorta dell’Islam che saranno più difficili da dimenticare dei traumi subiti, oppure vedove, che non possono tornare a casa dopo esser state sposate ad uno o più combattenti, o infine giovani uomini che nella migliore delle ipotesi sono dei reduci di guerra che in Patria rischierebbero la prigione per quello che hanno fatto, ma che talvolta continuano ad essere utilizzati dallo stesso IS per compiere attentati come al museo del Bardo o al resort a Sousse.
Quanto alle zone con maggiore presenza jihadista e scontri/attacchi alle forze dell’ordine, il primato spetta al Governatorato di Kasserine (uno dei 24 governatorati della Tunisia), che si trova nella parte occidentale del Paese, al confine con l’Algeria, e soprattutto al Monte Chaambi. È questa la zona del Governatorato di Kasserine in cui si concentrano da anni gli scontri tra esercito e jihadisti (Uqba bin Nafi, AQMI AaS-T), che controllano parti di territorio. Si tratta di una zona impervia, da anni militarizzata, nella quale dal 2012 è stata avviata un’operazione militare che malgrado i successi registrati non riesce a stanare definitivamente i gruppi di combattenti che vi si nascondono, anche perché confina con l’Algeria, Paese dal quale si infiltrano i gruppi terroristi a causa dell’estrema porosità dei confini in quella zona.
La presenza di tutti i citati gruppi jihadisti si concretizza il più delle volte in attacchi alle forze di sicurezza tunisine, ma hanno portato anche ad attacchi importanti contro civili, soprattutto turisti stranieri. Si tratta di una situazione non nuova per il Paese, che già nel 2002 aveva subito un grave attentato alla sinagoga Ghriba a Djerba e nel corso del 2015 è stato colpito al museo del Bardo di Tunisi e ad un resort di Sousse (entrambi gli attacchi sono stati rivendicati da IS).
La importante presenza dei gruppi terroristi e il così elevato numero di foreign fighter partiti dalla Tunisia, dimostrano come in questi ultimi anni il radicalismo islamico sia cresciuto, trovando terreno fecondo sul quale mettere le proprie radici, e le ragioni sono da ricercare, così come per la Rivoluzione dei Gelsomini, nei problemi economici ed in quelli sociali che i primi generano. In Tunisia infatti l’economia sta vivendo un momento di stagnazione, ancora molto elevato è il tasso di disoccupazione (che ha risentito anche del rientro in Patria delle migliaia di lavoratori tunisini che sotto il Regime di Gheddafi vivevano in Libia), mentre il deprezzamento della moneta locale sta favorendo l’export ma portando ripercussioni negative sulla bilancia commerciale e provocando l’aumento dei prezzi di quasi tutti i beni, nella maggior parte dei casi importati dall’estero.
La Tunisia sta pertanto affrontando nuovamente un momento di tensioni sociali, soprattutto nelle zone dell’interno e nel sud del Paese, ove ai giovani vengono offerte limitate prospettive professionali e di miglioramento della propria condizione socio-economica. Tutto ciò, anche quando non porta al radicalismo islamico ed alla decisione di unirsi a gruppi jihadisti, favorisce un senso di frustrazione che potrebbe nuovamente trasformare la situazione in esplosiva.
Come ha più volte rilevato lo stesso Presidente Essebsi, le richieste dei giovani non sono ancora state pienamente ascoltate e da ciò deriva il malessere sociale. Un malessere che a volte si manifesta in scontri in alcune regioni, con manifestanti che alternano azioni violente con lo sciopero della fame e con il blocco (o la minaccia di blocco) delle strade sulle quali passano i mezzi delle compagnie che estraggono idrocarburi (gas e petrolio), spesso senza che le popolazioni locali beneficino dei vantaggi economici degli ingenti proventi. In talune aree del Paese si verifica nella società tunisina uno scollamento tra la popolazione ed alcune élite politico-economiche che sono accusate di trattenere per sé benefici e privilegi, lasciando ampie fasce della popolazione e le grandi masse delle zone rurali prive della stessa speranza in una vita migliore per loro e per i loro figli.
Anche per questo, nell’ambito del riuscito processo di democratizzazione avviato nel 2011 è stato giustamente da tempo avviato un programma di riforme volte alla decentralizzazione del potere statale in favore delle Autorità locali, più vicine alle popolazioni locali.
Tra i numerosi settori che hanno visto grandi riforme in favore della popolazione se ne ricordano almeno due: quello costituzionale e quello del diritto di famiglia. In entrambi i progressi compiuti rendono la Tunisia un modello da prendere da esempio per l’intero Nord Africa.
La nuova Costituzione, approvata nel gennaio 2014, è per numerosi aspetti la più avanzata tra tutte quelle dei Paesi dell’area MENA, ad iniziare dal fatto che essa sancisce che “cittadine e cittadini sono uguali in diritti e doveri, senza discriminazione”, ed anche grazie a tale norma si è avviato un profondo cambiamento nella società tunisina, che ha portato la percentuale delle donne presenti in Parlamento ben al 34%.
Solo restando a tali aspetti (per approfondire uno dei molteplici settori nei quali le riforme in Tunisia stanno raggiungendo risultati notevoli specie se rapportate al breve tempo nelle quali si stanno realizzando), profonde sono le riforme al diritto di famiglia, adottate soprattutto grazie all’azione dell’anziano e illuminato Presidente Essebsi, che ha spesso pubblicamente sostenuto di voler eliminare quelle norme che originano dalla sharia e confliggono con l’ordinamento costituzionale di qualsiasi stato civile e democratico. Numerose sono le variazioni che stanno avvicinando i diritti delle donne a quelli degli uomini, rendendo il Paese il più avanzato esempio di tutela dei diritti umani della Regione.
Grazie alla nuova costituzione e alle tutele ivi contenute, le donne tunisine sono riuscite ad inserirsi pienamente nel mondo del lavoro. Numerose le riforme che hanno modificato il diritto di famiglia ed il codice penale abolendo il c.d. “matrimonio riparatore” (formalmente eliminato in Italia solo nel 1981) e punendo le forme di violenze contro le donne sia fuori che dentro le mura domestiche. Inoltre, solo per fare un altro esempio, oggi in Tunisia la legge impone ai datori di lavoro di pagare uomini e donne con la stessa retribuzione, a parità di mansioni e ruolo, e come sappiamo qui in Italia si tratta di norme che non sempre vengono applicate anche nei Paesi occidentali.
Tra le riforme del diritto di famiglia per le quali il Presidente si sta battendo troviamo le norme che regolano il matrimonio, ove recentemente un altro successo è stato raggiunto eliminando il divieto per le donne musulmane di sposare uomini di altre religioni, e quelle sulle successioni, che vedono ancora oggi favoriti i figli maschi sulle figlie femmine.
Nel complesso risulta evidente come in molti settori l’ordinamento tunisino stia divenendo il più avanzato dell’intera Area, scatenando l’opposizione dei più oltranzisti, sia in Patria che nei Paesi vicini, ove temono che possano essere presentate analoghe richieste, per molti confliggenti con la Sharia e quindi assolutamente non accettabili.
Conclusioni
Dopo la Rivoluzione dei Gelsomini è stato quindi avviato un intenso programma di riforme, che ha coinvolto numerosi aspetti della vita sociale, l’economia ha visto alcuni segnali di ripresa e la lotta al terrorismo esogeno ed endogeno viene portata avanti con i massimi sforzi dalle Autorità militari e civili. Malgrado ciò, tuttavia, la situazione securitaria della Tunisia continua a destare preoccupazione, anche e soprattutto in vista del paventato ritorno di migliaia di foreign fighter dai teatri libico e siro-iracheno.
Si tratta di una situazione interna che per alcuni aspetti stride con le riforme adottate, con le azioni in ambito internazionale e con le potenzialità del Paese, che rappresenta il più riuscito esperimento democratico delle Primavere Arabe, ma le cui riforme ed i cui sforzi nella lotta ai gruppi jihadisti e alle instabilità che provengono dai Paesi contermini vengono in parte vanificati dal malessere socio-economico di ampie fasce della popolazione, che permane nelle aree interne malgrado i successi delle citate riforme e costituisce il terreno ideale per il radicalismo.
In definitiva, la Tunisia rimane un Paese di forti contrasti, a due facce, si potrebbe dire: con una ricchezza concentrata nelle zone costiere ed un entroterra più povero e con scarse opportunità per i giovani; con una popolazione che anche durante la rivoluzione ha dimostrato di essere “pacifica” ma che ha prodotto migliaia di foreign fighter partiti per andare a combattere in Libia e nel teatro siro-iracheno.
[1] Le opinioni espresse si riferiscono all’Autrice, e non corrispondono necessariamente alla posizione dell’Amministrazione di appartenenza.