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Il conflitto tra India e Pakistan
La gemma più preziosa della corona della Regina Vittoria e l’opera incompiuta di Lord Mountbatten
Gino Lanzara
Il conflitto indo-pakistano, per quanto breve, ha fornito nuovi elementi di valutazione per quanto concerne le evoluzioni belliche, già sollecitate dal conflitto russo-ucraino. Il fatto che New Delhi e Islamabad siano in perenne attrito dal 1947, non deve indurre all’assuefazione, dati gli armamenti disponibili e la pervasiva presenza di egemoni alle prese con una geopolitica cangiante ma condizionata dai variabili squilibri di potere.
La storia e i Mahraja
Jammu e Kashmir riportano ad immagini proprie di film d’avventura in stile Indiana Jones; terra contesa tra due Stati sin dall’addio di Lord Mountbatten, latore delle drammatiche imprecisioni della linea Radcliffe, costituisce parte prevalente di un territorio insistente su di una linea di confine naturalmente incandescente malgrado l’altitudine[1], dove una cronica instabilità ha favorito spinte centrifughe volte ad agevolare movimenti separatisti e gruppi di ispirazione islamista. Il Kashmir, malgrado la forte presenza musulmana, è tuttavia sempre stato economicamente vincolato a New Delhi, prova ne sia che il Mahraja Hari Singh, ultimo regnante locale di un’era britannica ormai al declino, si fece forte dei legami col Partito del Congresso Indiano per far sì che la regione, nel 1947, aderisse all’India[2], decisione da subito avversata dal Pakistan. L’importanza geopolitica del Kashmir è sempre più evidente e rilevante poiché il controllo su questa regione garantisce sia il possesso di risorse naturali, sia la preservazione di un’influenza strategica regionale. Se per Delhi conservare il controllo sul Kashmir è una questione di integrità territoriale, per Islamabad l’area rappresenta un simbolo identitario nazionale della lotta per l’autodeterminazione musulmana locale[3]; una situazione peraltro esacerbata dalle recenti dichiarazioni di Asim Munir, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito pakistano, che ha trovato opportuno riesumare la teoria delle due nazioni propria di Jinnah, ora più che mai atta ad esaltare l’incompatibilità culturale indo-pakistana.
Inevitabile dunque il confronto con la Terra dei Puri, unico modello politico contemporaneo di Stato costituito per motivi prevalentemente religiosi, benché Muhammad Ali Jinnah avesse già da allora perfettamente inteso che fondare sull’Islam la nuova nazione avrebbe condotto a violenti attriti[4] malgrado i ripetuti tentativi di mediazione che nulla poterono, in quella terra di nessuno sospesa a 7.000 metri di altitudine per impedire, già tra il 1947 ed il 1948, una serie di conflitti violenti e sanguinosi che determinarono un limes incerto[5] che lasciò al Pakistan un terzo della regione e all’India la rimanente, soverchiante porzione[6]. Una situazione aggravata dal preannunciato decesso di Jinnah, che privò il Pakistan del politico più esperto e potenzialmente in grado di affrontare il terzo pretendente kashmiro, la Cina di Mao Zedong che, dopo un breve conflitto con Dehli, occupò l’Aksai Chin e i suoi valichi strategici, in aggiunta alla regione dello Shaksgam o Trans Karakorum grazie al riconoscimento del quale Islamabad inaugurò l’alleanza strategica sino-pakistana[7]. Tra il 1965 ed il 1971[8] Indiani e pakistani tornarono ad incrociare le lame[9], fino a giungere al 1998 ai test atomici pakistani susseguenti alla ripresa del programma nucleare indiano, ed al 2019, con l’attentato di Pulwama rivendicato dall’organizzazione terroristica pachistana Jaish-e-Mohammed. Utile rammentare i finanziamenti indiani a favore dell’indipendentismo del Balochistan, cui il Pakistan ha risposto con l’appoggio fornito a favore della guerriglia islamista in Kashmir[10]. A poco meno di ottant’anni dal suo inizio, la querelle kashmira si è riacutizzata ad aprile con l’attentato di Pahalgam, il peggiore da quello commesso a Mumbai nel 2008 e che ha costituito una battuta d’arresto per il Bharatiya Janata Party di Narendra Modi.
Dimensioni internazionali di un conflitto antico
Di fatto, il conflitto kashmiro non deflagra solo tra i due Stati, ma si riverbera dal 1989 anche all’interno dell’India, quando prendono il via le prime azioni ribelli separatiste[11]. In questo frangente, intensità militare e livello retorico portano a destare preoccupazioni sul fatto che le tensioni, benché latenti, possano oltrepassare una soglia relativamente accettabile; il tempo impiegato per organizzare una risposta, lascia intendere che a Dehli abbiano valutato tutte le opzioni per evitare pericolose vulnerabilità e prepararsi ad un’escalation, intesa a considerare sia l’incisività del simbolismo nazionalista religioso, sia l’influenza esercitata dagli egemoni globali, laddove un conflitto arrecherebbe nocumento agli interessi statunitensi.
Michael Kugelman del Wilson Center si è espresso definendo l’India un alleato americano de facto, laddove Dehli si definisce un (de iure) partner and friend statunitense, incastonato nel più ampio contesto indo pacifico, area cruciale per le rotte commerciali marittime, le supply chains, la più generale geopolitica sollecitata da iniziative come quella animata dall’IMEC[12].
Del resto Cina e India[13] pur generalmente dipinte come avversari naturali, sono tuttavia accomunate da aspetti che le hanno viste costrette ad affrontare situazioni iniziali sì difficili eppure non in grado di inibire il confronto militare del 1962, post fallimentari trattative tra Mao Zedong e Jawaharlal Nehru, proprio per l’acquisizione del controllo di alcune migliaia di chilometri quadrati di territorio himalayano, tra l’indiano Ladakh ed il cinese Tibet, risolto con la disfatta indiana, una contesa territoriale irrisolta[14] ed un cessate il fuoco unilaterale proclamato da Pechino. Attualmente, il confine sino indiano è demarcato dalla Line of actual control[15], contornata da zone cuscinetto concordate.
Che si tratti di zone caratterizzate da instabilità, è testimoniato anche dagli scontri avvenuti nel 2020 nel settore occidentale della Lac, dove truppe cinesi e indiane si sono scontrate all’arma bianca, in ottemperanza ad un accordo bilaterale che proibisce l’uso di armi da fuoco lungo un confine di fatto aleatorio e lungo duemila chilometri; secondo alcune fonti, la Cina si sarebbe allargata all’interno del territorio indiano di almeno 1000 km2, realizzando peraltro avamposti militari, tesi contrapposta a quella che vuole Delhi sotto di almeno 2.000 km2 . Malgrado i ripetuti confronti diplomatici, i tentativi di giungere ad accordi per una de-escalation bilaterale che consentisse di ristabilire lo status quo ante 2020, sono rimasti confinati nel limbo delle intenzioni, aspetto questo che ha condotto alla restituzione di nulla, con il conseguente permanere delle restrizioni agli investimenti cinesi in terra indiana. Il problema di fondo tra India e Cina, che rimane il principale partner internazionale del Pakistan, consiste in una significativa disparità di potenza tra i due Paesi sia sul piano militare che economico, benché quest’ultimo veda una rapida ascesa di New Delhi, che non ha aderito, unica in Asia meridionale, alla BRI, proprio per proporsi quale nuova superpotenza in fieri che non accetta alcuna subordinazione e che, anzi, intende contrastare gli investimenti regionali cinesi in paesi di proprio tradizionale appannaggio[16]. A ben veder si tratta di divergenze di non poco conto, specie laddove messe a sistema con i rapporti di partenariato internazionale nell’ambito di più ampi forum mondiali[17], una situazione per la quale l’India dovrebbe riuscire a perseguire la posizione strategica ottimale, ovvero riuscire a coltivare rapporti con gli USA ma gestendo le liaison con la Cina; intrattenendo rapporti con l’Europa ma rassicurando la Russia; coinvolgendo il Giappone; rafforzando l’arsenale, già dotato di armamento nucleare, a scopo deterrente.
Non a caso, secondo lo Stockholm international peace research institute[18], tra il 2019 e il 2023 l’India è stato il primo importatore di armi, assorbendo quasi il 10% della produzione industriale bellica globale. Politicamente, gli USA sono consapevoli della necessità di dover contare su Modi per ridurre l’influenza di Pechino, tanto che già a partire dall’Amministrazione Bush nel 2005 si è tentato di ravvivare i rapporti indo-americani, storicamente tiepidi e resi ulteriormente complessi dalla più recente politica daziaria sulle esportazioni verso Washington[19]. Di fatto una guerra protratta contro il Pakistan andrebbe ad inficiare il contenimento anticinese americano di cui Delhi è parte integrante; del resto neanche al Pakistan farebbe comodo una guerra, visto che rimane afflitto da una persistente crisi economica e politica di cui è diretta dimostrazione la detenzione dell’ex premier Imran Khan, al vertice politico prima di scontrarsi con l’establishment militare.
Genesi politica di un conflitto
Tornando sulle più alte pendici kashmire, il punto di faglia si manifesta il 5 agosto del 2019, quando il governo indiano, dopo gli attentati e le reazioni militari di new Delhi e Islamabad del febbraio di quell’anno, pone la parola fine all’autonomia regionale, pur alla luce della portata degli eventi insurrezionali che, dal 1987, hanno causato non meno di 70.000 vittime. All’oscuramento di internet ed all’interruzione delle linee telefoniche, seguono più stringenti provvedimenti legislativi che dividono lo Stato in due territori federali, Jammu e Kashmir Ladakh, e che di fatto estendono ed approfondiscono un più fattivo controllo estrinsecato in una forma di governo diretto da parte di New Delhi. Inevitabili le reazioni sino-pakistane, suscitate in particolare dalle dichiarazioni del ministro dell’interno indiano, Amit Shah, a suo dire pronto a dare la vita pur di restituire a Bharat il Kashmir occupato dal Pakistan e l’Aksai Chin controllato dalla Cina, come dire, un’entrata pachidermica nella cristalleria che espone i fragilissimi confini di tre potenze nucleari. La revoca dell’articolo 370 della Costituzione indiana innesca dunque, su molteplici livelli, l’ira pakistana, destando la preoccupazione cinese espressa diplomaticamente anche in ambito NU, ma senza riuscire tuttavia a determinare una risoluzione fattiva.
Le relazioni indo pakistane si inaspriscono nuovamente per l’attentato che, in aprile, a Pahalgam vede l’eccidio di 26 turisti indiani e che causa l’innesco di una reazione potenzialmente prodromica ad un’escalation, la cui responsabilità è stata attribuita a Pakistan, affrettatosi a negare qualsiasi coinvolgimento ed attento ad ammonire circa potenziali rappresaglie foriere di ulteriori incontrollabili reazioni in una delle zone più militarizzate del globo. Posto che le accuse di connivenza mosse dall’India sono state negate da Islamabad, il governo Modi ha tenuto ad affermare che le forme di militanza insurrezionale sono diminuite dal 2019, dopo la revoca dell’autonomia kashmira.
Inizialmente Kashmir Resistance, noto anche come The Resistance Front ha rivendicato la responsabilità sui social media, salvo poi, apparentemente, ritrattare ma senza poter impedire che New Delhi lo classificasse come un’organizzazione terroristica collegabile agli islamisti di Lashkar-e-Tayyiba (LeT), responsabili degli attentati di Mumbai del 2008 e all’ombra di una plausible deniability[20], tanto sia da chiudere un valico di frontiera, sia limitare ulteriormente i visti d’ingresso per i cittadini pakistani, sia espellere i consiglieri militari dell’Alto Commissariato pakistano a Nuova Delhi per giungere infine al provvedimento di maggior impatto, ovvero la sospensione del Trattato sulle acque dell’Indo, fondamentale patto di condivisione idrico tra New Delhi e Islamabad, vigente dal 1960 e finora considerato un raro caso di successo diplomatico tra due perenni belligeranti.
Il sistema fluviale dell’Indo, che sostenta centinaia di milioni di pakistani e indiani del nord, nasce in Tibet, attraversa la Cina e il Kashmir indiano prima di giungere in Pakistan. Consequenziale l’intento di Islamabad di considerare qualsiasi tentativo di fermare o deviare le acque quale patente atto offensivo, preceduto dalla sospensione degli scambi commerciali con l’India, dalla chiusura dello spazio aereo e dall’espulsione dei diplomatici indiani, stante il convincimento di star soggiacendo, come dichiarato dal primo ministro pakistano Shehbaz Sharif, ad accuse inique ed infondate che, tuttavia, sembrano tener conto del fatto che, dopo il ritiro americano da Kabul nel 2021, circa 7 miliardi di dollari in equipaggiamenti[21] siano rimasti in zona per essere in parte dirottati in Pakistan. La risposta indiana non si è fatta attendere, ed è stata accompagnata da lanci antinave da parte della Marina per riconvalidare e dimostrare la prontezza delle piattaforme, dei sistemi e degli equipaggi per un attacco offensivo di precisione a lungo raggio; dunque fin dal principio non ci sono stati dubbi circa una risposta militare indiana, ma non quando, sia pur con buona approssimazione, questa sarebbe avvenuta.
Attacchi e risposte
L’attesa, pur snervante, è terminata dopo pochi giorni con attacchi coordinati e mai inferti così in profondità e che hanno da subito determinato minacciose promesse di rappresaglie fondate su prospettive ben più preoccupanti che in passato visto che, peraltro, la mediazione internazionale, stanti i conflitti in evoluzione e l’erosione della credibilità delle organizzazioni multilaterali, è ora molto meno significativa in un contesto che non può non considerare le diverse evoluzioni seguite dai due Paesi dal loro ultimo conflitto del 1999, a cominciare dalla crescita del PIL indiano, 11 volte superiore di quello pakistano. La risposta di Israele all’attacco di Hamas ha poi rafforzato la convinzione di New Delhi per cui altre potenze non possono, o forse semplicemente non intendono, impedirle di esercitare il suo diritto alla difesa.
Sta di fatto che anche la neanche troppo velata intromissione di Ankara, aspirante dominus sunnita internazionale, secondo cui l’attacco indiano induce a ritenere una guerra totale sempre più vicina ed altrimenti evitabile con il sostegno alle richieste pakistane di indagine, non ha fatto altro che rafforzare il convincimento indiano che gli attacchi portati al Pakistan sono più che giustificati a seguito della dichiarazione del Consiglio di Sicurezza delle NU, considerata funzionale alla reazione non solo per Pahalgam ma anche per tutti gli attentati succedutisi a partire dall’attacco al Parlamento indiano del 2001. Sta di fatto che la postura indiana, particolarmente assertiva, ha comportato che la rabbia kashmira si reindirizzasse dai presunti colpevoli verso New Dehli, aspetto questo che consiglia di gestire con attenzione il risentimento popolare. In ogni caso, l’azione di rivalsa indiana è stata definita come mirata, misurata e non escalazionista, poiché ha inteso evitare obiettivi civili e strutture militari convenzionali, concentrandosi su nove siti di Lashkar-e-Taiba legati ad attività terroristiche, presumibilmente nelle aree di Kotli, Muzaffarabad e Bahawalpur.
Escalation e guerra nucleare
In un’accezione più ampia ci si deve quindi chiedere quale possa essere l’intensità del rischio di escalation, considerato il fatto che si è in presenza di due potenze nucleari[22]. L’autentica sfida diplomatica consiste dunque nel cercare di ristabilire un ordine regionale, una sfida resa ancora più complessa dall’esiguo spazio politico tra le due nazioni, cosa che induce a ritenere che le future mediazioni potrebbero essere condotte da paesi del blocco orientale, ovvero la Federazione Russa, che intrattiene ottimi rapporti sia con l’India che con il Pakistan, e la Cina, che occuperebbe il vuoto lasciato, almeno in apparenza, dagli USA. È utile rammentare come proprio Pechino coltivi propri interessi nel Kashmir, di cui possiede una porzione, ed è quindi possibile immaginare una sua più fattiva, futura e proficua pro domo sua presenza diplomatica.
Nonostante i ripetuti richiami ad una razionalità che impedisca l’escalation nucleare, in considerazione del fatto che né India né Pakistan intendono passare alla storia come i primi ad infrangere l’interdizione nucleare post-Hiroshima, vista la devastazione che tali armi comporterebbe peraltro verso entrambi i contendenti, sussiste comunque qualche motivo che dovrebbe indurre alla preoccupazione. La dottrina nucleare pakistana non persegue una politica NFU esplicita, ragion per cui, a fronte di quella che ritiene essere una minaccia esistenziale, Islamabad non esclude il ricorso al diritto di usare armi nucleari; è utile a tal fine ricordare che il Pakistan dispone di armi nucleari tattiche a corto raggio schierate in avanti e che sono destinate ad infrangere significative incursioni convenzionali indiane secondo una cold start doctrine[23]. In campo indiano, sebbene New Delhi abbia sostenuto una dottrina del no-first-use, di recente ha informalmente riconsiderato la sua posizione; la dottrina operativa indiana è ancora circondata da molti aspetti ambigui, benché diversi esperti abbiano sostenuto che l’India stia cercando concrete capacità di primo attacco. In ogni caso l’India conserva una forte capacità di rappresaglia supportata dalla sua triade nucleare[24].
Gli USA contano ancora?
Gli USA, in passato, hanno svolto un ruolo basilare nel contenere e disinnescare le crisi indo-pakistane; questa volta, tuttavia, l’Amministrazione americana è costretta a considerare altre questioni interne e di politica estera, tanto da non poter essere in grado di dedicare tempo e risorse atte a prevenire un’ulteriore escalation. È stato il Segretario di Stato Marco Rubio, il maggiorente americano deputato a cercare di persuadere le parti ad esercitare la più opportuna moderazione; tra i tentativi velleitari va novellata l’inedita mossa iraniana che ha visto il ministro degli Esteri Abbas Araghchi visitare il Pakistan; nonostante i legami iraniani con Delhi e Islamabad, la carenza di peso specifico politico-diplomatico ha di fatto inciso significativamente in negativo, anche in virtù del fatto che capacità e volontà reattive pakistane collidono con una non trascurabile fragilità economica che renderebbe disastroso qualunque conflitto protratto.
Un’analisi comparativa convenzionale[25] evidenzia ancora un vantaggio generale indiano, sebbene con aree di parità o superiorità pakistana. La fase iniziale di un conflitto frontale sarebbe probabilmente dominata dalla logica di azione-reazione, propria della teoria dei giochi, per cui ogni mossa è calcolata sia per l’effetto immediato prodotto, sia per come verrà interpretata dall’antagonista e per la reazione provocata. Ecco riproporsi il dilemma dell’escalation, con una calibrazione delle azioni che non possono provocare reazioni sproporzionate in considerazione di minacce di volta in volta considerate esistenziali benché inizialmente portate in via convenzionale.
L’India gode di un evidente vantaggio convenzionale e di un’economia più evoluta, mentre il Pakistan avverte l’esigenza di riprendere le relazioni con l’Occidente evitando di divenire vaso di coccio tra il ferro di Washington e Pechino secondo quello che è stato definito da Islamabad nuovo approccio geoeconomico; il Pakistan è finanziariamente fragile e dipendente da aiuti esterni con legami molto stretti con Cina e Turchia, un aspetto che potrebbe indurre ad influenzare la propensione al rischio. La situazione, in sintesi, rimane connotata da un equilibrio particolarmente instabile, e soggetto all’influenza del minimo errore di calcolo.
Il cessate il fuoco mediato dagli USA porta a considerare l’ipotesi di possibili dinamiche atte a fornire una modellazione delle crisi future che approfondiremo in seguito. Le affermazioni indo-pakistane sul preteso controllo della situazione vanno di fatto prese con scetticismo, visto che quanto accaduto sembra essere stato, almeno in parte, dettato dall’opportunismo tanto da produrre una notevole opacità.
Acqua e accordi internazionali
Per rimanere sul concreto, l’India ha percorso l’iter della sospensione unilaterale del Trattato delle Acque dell’Indo del 1960[26], volto a regolare la condivisione delle risorse idriche con il Pakistan; visto che molti esperti ritengono che l’India non disponga delle capacità necessarie per interrompere il flusso delle acque, quanto meno in breve tempo, la sospensione sembra essere più un gesto simbolico che una misura operativa e cogente, un atto volto a trasmettere un messaggio di forza al Pakistan ed alla comunità internazionale; un gesto che tuttavia sottende il rischio di rivelarsi un boomerang poiché ridurrebbe la fiducia internazionale per spingere Islamabad ad una reazione entro cui inquadrare la minaccia della sospensione dell’Accordo di Shimla del 1972, che ha limitato l’intervento internazionale sulla questione del Kashmir.
Armamenti inediti e ridimensionamento di miti
Se al momento il rischio dell’espansione su larga scala è stato contenuto, rimane tuttavia l’attenzione prestata dalla Cina all’efficienza di alcuni dei suoi equipaggiamenti forniti al Pakistan. Di fatto, un conflitto nel subcontinente asiatico meridionale potrebbe fornire la riprova della validità delle armi cinesi[27].
Nuova Delhi, che non ha voluto confermare la perdita di aviogetti rimarcata invece da Islamabad, ha rivendicato l’operazione Sindoor[28], come una risposta proporzionata e mirata[29], cui il Pakistan ha risposto con Bunyanun Marsoos, nome ripreso da un versetto coranico che significa muro indistruttibile.
Il governo Modi ha dunque convocato un vertice con tutti i leader per informare il Paese e compattare il fronte interno, mentre il premier pakistano, Shehbaz Sharif, ha parlato alla nazione, stigmatizzando l’abbattimento dei jet indiani[30]. L’azione indiana, tuttavia, pur calibrata, è stata decisa, segno di una volontà politica che non intende più soggiacere né all’inerzia diplomatica né al ricatto terrorista transfrontaliero sostenuto da intelligence ed esercito pakistani. Oltre alla dimensione tattica, l’India ha voluto lanciare un input strategico, ovvero la sua capacità di controllo della narrativa. Delhi vuole mostrarsi non solo come potenza responsabile, ma anche come soggetto in grado di reagire con forza modulata in un momento in cui le potenze egemoni incontrano difficoltà nel gestire focolai contemporanei di squilibrio, tra Ucraina, Medio Oriente e Taiwan. Di fatto, la crisi è sistemica, dato che si stanno infrangendo le barriere che avevano finora isolato gli attriti locali; terrorismo islamista, guerra ibrida, risorse idriche, uso strategico di rifugiati e dei flussi migratori sono strumenti che rendono il confronto indo-pakistano un caso di scuola nell’ambito della sicurezza globale. Da considerare quindi la valenza geopolitica generata dall’invasione russa dell’Ucraina che ha indotto l’India a pensare di poter assurgere al ruolo di potenza mondiale utilizzando gli effetti delle crisi provocate dal conflitto in Europa orientale per accrescere i propri interessi; una prospettiva da considerare sia alla luce dell’avvicinamento agli USA in chiave anti Pechino, sia dei legami con la Russia pressata dalle sanzioni ma forte approvvigionatrice di greggio a prezzo scontato, sia delle possibilità offerte di sfruttare le crisi securitarie evidenziate dall’inazione americana, tutte leve geopolitiche indispensabili nella competizione con la Cina e per l’equilibrio di potenza in Asia.
Si tratta di una posizione da gestire con attenzione, in quanto pone Dehli al centro di un doppio corteggiamento e crea il rischio di avere fin troppe attenzioni rivolte su una politica che scivola tra G7, BRICS, QUAD, SCO. In questo ambito il Pakistan rappresenta un possibile proxy soggiacendo alla pressione cinese lungo i confini himalayani e dovunque gli interessi confliggano. Spaziando da Sri Lanka a Pakistan, da Bangladesh a Cina, Bharat deve controllare periferie strategiche ma instabili e soggette alle manovre di Pechino in aree che l’India percepisce vitali[31].
Non a caso la dirigenza indiana ha ribadito che Delhi gioca unicamente per sé stessa, continuando dunque ad operare secondo il proprio interesse anche in tema di sicurezza energetica e rinsaldando i propri rapporti con l’UE, divenuta elemento strategico. Per raggiungere l’obiettivo di divenire entro il 2030 la terza economia mondiale integrata nelle filiere produttive planetarie, l’India accelera aperture economiche, suscita attrazione commerciale e investimenti che contemplino cessione, sviluppo e produzione associati a tecnologia a uso duale.
Linee di faglia e jihadismo
L’instabilità che si diparte dal Kashmir può compromettere le rotte che collegano il Golfo Persico, l’Asia Centrale e il Pacifico seguendo una linea di faglia che solo in apparenza è lontana. I nove bersagli centrati dell’India non sono stati casuali, dato che si tratta di punti nodali dell’infrastruttura jihadista connessa a Lashkar-e-Taiba, Jaish-e-Mohammad e Hizbul Mujahideen, organizzazioni in molti casi coperte dall’intelligence pakistana che ne assicura l’impunità. Per l’India colpire questi obiettivi ha significato andare oltre lo scopo militare, intaccando la strategia destabilizzatrice pakistana che addestra jihadisti a ridosso della Linea di Controllo. Secondo Happymon Jacob della Jawaharlal Nehru University e fondatore del Council for Strategic and Defense Research, Sindoor costituisce un cambiamento strutturale dottrinario: l’India ora considera ogni attacco terroristico come un atto di guerra convenzionale che attiva una strategia di deterrenza attiva, con implicazioni di ampia portata. L’India non accetterà più dunque distinzioni tra terrorismo ed attacchi militari convenzionali, eliminando così il vantaggio strategico pakistano che ha permesso finora di evitare rappresaglie dirette. L’Operazione Sindoor assurge dunque a dichiarazione strategica che trasforma i rapporti con il Pakistan; gli attacchi aerei del 7 maggio rappresentano l’emersione di una strategia più ampia, dove New Delhi punta a sradicare il terrorismo non solo con operazioni mirate, ma con una pressione prolungata e multilivello che conduce alla conclusione di Kugelman per cui, su Islamabad, si va ad aumentare il costo del non agire contro i gruppi terroristici, una sfida difficile, visto l’appoggio al Pakistan da parte di Cina, Arabia Saudita e soprattutto Turchia[32].
L’Operazione Sindoor ha determinato il danneggiamento, non irreversibile di diverse basi aeree pakistane, con l’uso da entrambe le parti di droni e missili, aspetto che ha dimostrato una certa vulnerabilità che, in futuro, potrebbe indurre Islamabad a passare più celermente all’opzione nucleare; tuttavia, anche l’abbattimento di un Dassault Rafale indiano ha segnalato una superiorità missilistica di fabbricazione cinese, tanto da rendere un Pl-15E[33] caduto quasi integro in territorio indiano, una reliquia di rara preziosità per l’intelligence occidentale. L’abbattimento del Rafale[34], comunque, attribuito ad un caccia di produzione cinese non è privo di implicazioni a livello di intelligence; non è escluso che l’India abbia valutato le possibilità di colpire preventivamente l’arsenale nucleare pakistano in modo da guadagnare un vantaggio strategico decisivo, per cui se Delhi potesse convincere il Pakistan della sua capacità di portare un attacco ultimativo, questo potrebbe rendere vane le minacce nucleari pakistane, permettendo attacchi punitivi convenzionali atti a ripristinare la deterrenza indiana.
Nuove dottrine di guerra ed ipotesi future
Una delle prime lezioni da trarre dagli scontri tra India e Pakistan, è che l’investimento sulla creazione di una Kill Chain può essere più importante che spendere su aerei da combattimento, dando così credito a Memphis Barker del Telegraph, secondo cui il Rafale è stato abbattuto dalla dottrina di guerra cinese, visto che l’aviazione pakistana, aiutata dai satelliti e dagli Awacs ha eseguito un attacco con fusione dei sensori. Commercialmente, l’indebolimento russo a seguito del conflitto ucraino potrebbe aprire spazi rilevanti in mercati di tradizione moscovita, come Algeria, Egitto, Iraq e Sudan.
A mettere – temporaneamente – la parola fine è stato il Presidente USA Trump, che ha annunciato il cessate il fuoco immediato e completo, la cui mediazione deve essere ben chiarita.
Quel che più rileva è come il cessate il fuoco è stato percepito, problema evidentemente diffuso ad ogni latitudine ed in ogni tempo, visto che ambedue i contendenti cantano vittoria celebrando svariati atti di eroismo. Se il pakistano Shebahz Sharif ha voluto che rimanesse vivo il ricordo di un capitolo significativo di guerra moderna combattuta da un Paese che con forze inferiori ed un’economia zoppicante ha avuto l’ardire di innalzare la sfida al livello nucleare, in campo indiano, oltre ai compiacimenti per la fine degli scontri, è emersa la sensazione di una deludente ritirata imputabile anche al coinvolgimento USA, una valutazione sospinta da un pericoloso senso di distacco dalla realtà.
I combattimenti oggettivamente sono interrotti, ma il conflitto non è finito, e rischia di riverberarsi internamente. Gran parte degli eventi sembra essere stata il risultato di improvvisazione, e ha creato, come già accennato, un contesto opaco e pericoloso per un attrito tra potenze nucleari: è più che mai chiaro che questa è stata la crisi indo-pakistana più pericolosa degli ultimi 30 anni. Se è ancora presto per valutare i significati per India e Pakistan, è però possibile cercare di delineare qualche possibile ed ipotetica dinamica. Innanzi tutto, Il dibattito globale sull’attribuzione si è volto a favore dell’India, ma ha portato a comprimere le pressioni politiche inducendole a reagire precipitosamente in seguito a futuri attacchi terroristici; quale seconda considerazione va rimarcato che le FA dei due Paesi hanno creato nuovi precedenti circa la selezione di obiettivi che influenzeranno la pianificazione operativa aumentando la posta in gioco. Quale terzo elemento, le operazioni di intelligence si sono spostate dalla periferia al centro della programmazione operativa, come accaduto in ambito difensivo pakistano. Ultimo punto, non meno importante, l’uso esteso di droni ha reso di difficile comprensione le modalità con cui entrambi gli eserciti interpretano la gradualità dell’escalation.
Va poi considerato come si sia prestata poca cura verso gli autori degli attacchi o alla natura dei loro legami con il Pakistan, probabilmente perché gli stati partner di Delhi hanno adottato un approccio che attribuisce la responsabilità a Islamabad, basandosi sul modello di sostegno pakistano alla militanza anti-indiana, anziché su prove poi divulgate; un’evoluzione frutto dell’attività cognitiva di Bharat nel far sì che i partner eludessero il bisogno di approfondimento delle questioni di attribuzione classificando le richieste di indagine come tentativi dilatori, agevolati sia dalle svariate attività terroristiche cui gli USA sono stati oggetto, sia dalla crescente importanza dell’India come partner strategico e commerciale. Si tratta di un risvolto che condiziona l’opinione pubblica a credere che l’attribuzione debba, pro forma, avvenire automaticamente passando subito a forme ritorsive che tuttavia, spesso hanno trovato fondamento nell’appoggio fornito dall’esercito pakistano con dettagli però spesso difficili da tracciare.
Inertizzando il problema dell’attribuzione, la leadership indiana ha sia compresso la capacità pakistana di ritardare o negare un’altra eventuale crisi, sia aver anche reso più difficile attenuare lo sciovinismo interno volto a richiedere rappresaglie; nel caso di un ulteriore attacco New Delhi potrebbe sentirsi in dovere di estremizzare la propria strategia, e specularmente quella del Pakistan, per trovare siti con un valore politico e operativo comparabile, come strutture di intelligence o militari di livello più elevato, oppure organizzare attacchi antiterrorismo con operazioni speciali o attività navali. Il Pakistan da questo conflitto ha nel contempo maturato una preoccupazione simmetrica, consistente nella capacità dei sistemi d’arma indiani di attraversare il confine internazionale colpendo siti difesi. Quel che lo Stato Maggiore pakistano ha fatto, è stato implementare le sue nozioni sulla guerra cognitiva dell’informazione, aspetto che ha condotto a diversi tentativi di relativa complessità[35], come le smentite circa l’attacco dell’8 maggio che hanno determinato più di una perplessità sulla direzione e proporzionalità della rappresaglia indiana.
Lo sviluppo bellico più rilevante è consistito nell’uso di UAV e di munizioni vaganti[36], un utilizzo che non dovrebbe sorprendere, date le lesson learned ucraine.
Lesson learned?
E a proposito di lesson learned, nel mettere rapidamente a frutto quanto appreso, valorizzando gli insegnamenti tratti per i futuri approvvigionamenti ed i piani operativi, il Pakistan quasi certamente incrementerà la sua integrazione con l’industria cinese, insieme con la Turchia per i droni; l’India deve affrontare scelte diverse e forse più complesse. Se è vero che le reti della difesa aerea sembrano aver funzionato bene e che le sue FA hanno dato prova di poter raggiungere il Pakistan con una combinazione di operazioni aeree e terrestri, è altrettanto vero che le riserve dovrebbero essere tarate per un conflitto ipoteticamente più prolungato e su più fronti. Attualmente le forze indiane operano con un armamento dalla produzione eterogenea che spazia dai droni israeliani, ai sistemi di difesa aerea russi e indiani, ai caccia francesi, agli aerei da sorveglianza americani, ai droni di produzione nazionale. La modernizzazione indiana, se intende raccogliere frutti, deve dunque integrare questa forza immaginandola impiegata su un unico campo di battaglia interconnesso, su almeno due fronti continentali e su un vasto teatro marittimo, problema questo che fornirà l’occasione per brain storming sugli appalti di alto profilo. Ultimo punto, non meno importante, le attività operative di esercito e marina, impegnati a comprendere come non rimanere ai margini.
Intendiamoci, di certo non è troppo presto per pianificazioni che tengano conto della combinazione di norme estemporanee sull’attribuzione, dei precedenti creati dagli attacchi terroristici, dell’onnipresente nebbia informativa della guerra, delle nuove tecnologie dei droni, tutti elementi capaci di dare l’avvio ad una nuova crisi capace di intensificarsi più rapidamente e in modo più opaco, con una più estesa configurazione di fronti e con maggiori capacità distruttive.
[1] Le tensioni indo pakistane risalgono al 1947 alla nascita dei due Paesi. Da allora i due paesi hanno combattuto tre guerre soprattutto lungo il confine kashmiro regione reclamata da entrambi fin dall’indipendenza. Il conflitto è iniziato con il piano di partizione dell’Indian Independence Act, che permetteva agli stati principeschi di scegliere a quale nazione aderire. Il mahraja del Kashmir, malgrado la popolazione fosse in gran parte musulmana, optò per l’India, scatenando la prima guerra indo-pakistana. Ne seguirono una seconda nel 1965 e una terza nel 1971, che portò alla nascita del Bangladesh. La strategia indiana del 1947 si basava sulla difesa mobile e sull’uso della superiorità aerea; quella pakistana su tattiche di guerriglia e incursioni.
[2] Entrambi i Paesi rivendicano tutto il Kashmir, diviso tra il Territorio indiano di Jammu e Kashmir e le divisioni amministrative pachistane di Azad Kashmir e Gilgit-Baltistan.
[3] Il Kashmir confina con Afghanistan, Cina, India e Pakistan
[4] Iftikar H. Malik, docente alla Bath University: Jinnah immaginava un’Asia meridionale successiva al ritiro della Gran Bretagna basato su un modello westfalico di Stati nazionali.. aggiungendo che era favorevole alla creazione di un’identità islamica basata su fattori storici, etnografici, economici e demografici” e di una forma statuale in cui l’Islam sarebbe stato un importante fattore di unificazione, ma non l’unico. – Jinnah in Our Times, 09 gen 2017 – Wion
[5] La Linea di Controllo (LoC) è la linea di cessate il fuoco stabilita nel 1949 dalle NUnite che divide il Kashmir tra India e Pakistan. Non rappresenta un confine internazionale ufficiale, ma funge da linea di demarcazione militare estendendosi per circa 740 km rendendola una delle frontiere più militarizzate e sorvegliate al mondo
[6] La Prima guerra del Kashmir, conclusa con una mediazione delle NU, determinò la ripartizione tra zone settentrionali e occidentali al Pakistan, quelle meridionali, centrali e nord-orientali all’India. L’ONU indicò come soluzione il ricorso ad un referendum dopo il ritiro dell’Esercito pachistano, degli elementi non statuali e del successivo ritiro parziale dell’Esercito indiano. Il referendum non si è mai tenuto. Il cessate il fuoco giunse nel 1949.
[7] Nuova Delhi rivendica l’Aksai Chin come parte del Ladakh, appartenente ad un regno assorbito dal Kashmir poi passato all’impero britannico. L’aspetto strategico è da ricercarsi nel collegamento tra il Tibet e lo Xinjiang.
[8] 1971, guerra indo-pachistana determinata dall’intervento indiano a sostegno dei guerriglieri indipendentisti bengalesi. Nel 1972, con l’Accordo di Simla, fu definita la linea di controllo (Loc), non corrispondente al confine internazionale che separa il Kashmir indiano dal Kashmir pachistano. La linea è rimasta invariata.
[9] Tra il 7 ed il 23 settembre 1965 i due eserciti dettero vita ad uno degli scontri più imponenti tra mezzi corazzati dalla II GM, cui seguì un’altra mediazione delle NU ed il trattato di pace noto come Dichiarazione di Tashkent (1966).
[10] Guerra di Kargil; nel maggio del ‘99 alcune unità paramilitari pakistane si infiltrarono nel Kashmir indiano occidentale, nel quadro della Operazione Badr scatenando lo scoppio di un conflitto di due mesi, al termine del quale gli indiani riuscirono a espellere i 5-6.000 paramilitari pakistani (vd. Dichiarazione di Lahore).
[11] Al Fronte di liberazione del Jammu e Kashmir (Jklf) ne sono seguiti altri, fino all’emergere ad inizio del secolo di sigle jihadiste (Jaish-e Mohammad o Lashkar-e-Taiba ).
[12] India-Middle East-Europe Corridor; progetto per la creazione di un corridoio multi modale lanciato nel settembre 2023, in occasione del G20 di New Delhi; ridisegnerà la connettività tra Europa e Asia, creando una rotta alternativa a quella per Suez, controbilanciando la BRI cinese.
[13] India e Pakistan hanno fatto ricorso al Kashmir per consolidare il supporto interno e giustificare l’aumento della spesa militare. Inoltre, la presenza della Cina nella disputa aggiunge un ulteriore livello di complessità geopolitica, trasformando il Kashmir in un potenziale punto di conflitto tra le principali potenze dell’Asia.
[14] Le contese territoriali riguardano due territori controllati da una delle due parti in causa, la cui sovranità non è riconosciuta dalla controparte: Aksai Chin, nel settore occidentale della Lac, controllato dalla Repubblica popolare e rivendicato da Nuova Delhi; Arunachal Pradesh, nel settore orientale, controllato dall’India e rivendicato da Pechino.
[15] La Lac è costituita da tre settori: occidentale, tra il Ladakh indiano e il Tibet e lo Xinjiang cinesi; centrale, tra l’Himachal Pradesh e l’Uttarakhand indiani e il Tibet cinese; orientale, tra l’Arunachal Pradesh indiano e il Tibet cinese, dove la Lac segue i confini fissati nel 1914 con gli Accordi di Simla tra il governo coloniale britannico e quello tibetano indipendente (McMahon Line).
[16] Nepal; Sri Lanka, Bangladesh
[17] BRICS, G20, SCO
[18] SIPRI
[19] Gli USA hanno cercato di favorire un dialogo indo pakistano ma i loro sforzi sono stati ostacolati dalla mancanza di fiducia tra Delhi e Islamabad e dalla percezione indiana che qualsiasi intervento esterno fosse un’ingerenza. Durante le amministrazioni Trump e Biden, la politica americana si è volta principalmente sul contenimento della Cina, rendendo il Kashmir un elemento secondario
[20] Il Trf è guidato da Sheikh Sajjad Gul (alias Saifullah Kasuri), uno dei responsabili della Let, che risiede nella parte pakistana del Kashmir da dove, poco prima dell’attentato, ha invocato, insieme al comandante della Let Abu Musa, la jihad. Interessante notare che sul palco si trovavano anche diversi membri di Hamas, più volte avvistati nella zona. Secondo il Trf i turisti sarebbero coloni o agenti indiani sotto copertura e i certificati di residenza rilasciati a colonizzatori, ovvero indiani non di origine kashmira destinati ad alterare la demografia regionale. Per la prima volta i kashmiri hanno sia manifestato contro gli attacchi terroristici sia dichiarato una serrata di protesta contro i jihadi, visto che nessuno intende perdere gli introiti generati da turisti e pellegrini.
[21] Nel complesso si annoverano non meno di 300.000 armi leggere come gli M4 finite in parte a gruppi jihadisti sponsorizzati dall’Isi, uno dei servizi di intelligence di Islamabad
[22] Il primo test indiano, denominato Smiling Buddha, è stato condotto nel 1974; il Pakistan si è dotato di armi nucleari a partire dal 1998. Secondo una stima della Federation of American Scientists l’India avrebbe prodotto abbastanza plutonio per un circa 210 testate nucleari, di cui 172 già assemblate. Secondo la Arms Control Association il Pakistan ne avrebbe prodotte circa 170. Altre stime ritengono che il Pakistan possegga un numero leggermente superiore pari a circa 140-165 contro 130-160 indiane. Secondo il Global Firepower Index, classifica militare globale del 2025, New Delhi si posiziona al quarto posto, mentre Islamabad al dodicesimo.
[23] I vettori pakistani includono missili balistici Shaheen e Ghauri, missili da crociera Babur e Hatf, e caccia F-16/Mirage.
[24] Missili balistici terrestri Agni, bombardieri aerei come Rafale/Mirage 2000, sottomarini lanciamissili come l’Arihant
[25] Vd. Global Firepower
[26]In base all’accordo l’India controlla i fiumi orientali (Sutlej, Beas, Ravi), mentre il Pakistan quelli occidentali (Indo, Jhelum, Chenab). Delhi può ricorrere a specifici utilizzi dei corsi controllati purché per scopi che non alterino o comportino una perdita della massa d’acqua. La sospensione del trattato significa privare potenzialmente il Pakistan dell’80% circa dell’irrigazione necessaria all’agricoltura. Fu firmato dopo nove anni di negoziati mediati dalla Banca Mondiale, tra il presidente pakistano Ayub Khan ed il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru nel settembre 1960
[27] Il Pakistan ha acquistato 25 J-10C cinesi nel 2021, diventando il primo e unico esportatore. L’aereo è stato introdotto nella Pakistan Air Force nel 2022. Il J-10C viene spesso paragonato all’F-16 Block 70/72 statunitense. Il J-10C è dotato di un radar Active Electronically Scanned Array (AESA), di un cercatore d’immagini all’infrarosso (IIR) PL-10, di un motore WS-10B e di missili aria-aria PL-15.
La Cina promuove il J-10C come migliore alternativa all’F-16 statunitense, all’Eurofighter Typhoon europeo e al Rafale francese, sfruttando il suo costo inferiore (40-50 milioni di dollari). Il Pakistan utilizza anche il caccia multiruolo leggero JF-17 sviluppato con la Cina; può lanciare missili aria-aria cinesi PL-10, PL-12 e PL-15, bombe guidate e non guidate e missili antinave. La combinazione di JF-17 e PL-15 permetterà al Pakistan di colpire un bersaglio a notevoli distanze lanciando attacchi stand-off senza entrare nello spazio aereo indiano. L’HQ-9 è un sistema missilistico terra-aria (SAM) a lungo raggio sviluppato dalla China Precision Machinery Import-Export Corporation (CPMIEC). È progettato per intercettare diverse minacce aeree, tra cui jet da combattimento, droni e missili. Il sistema è stato sviluppato sulla base di una tecnologia derivata da Almaz-Antey, l’azienda russa che produce i sistemi di difesa aerea S-300, S-400 e S-500. Il CH-4B Rainbow, drone collaudato in combattimento, spicca come risorsa chiave per ricognizione, attacchi di precisione e raccolta di informazioni, in particolare lungo la Linea di Controllo. Sviluppato dalla China Aerospace Science and Technology Corporation, è un UAV a media altitudine e lunga resistenza vicino all’MQ-9 Reaper statunitense.
[28] Il sindoor è una sostanza tradizionale di colore vermiglio, utilizzata dalle donne hindu sposate lungo la scriminatura dei capelli; simboleggiando il matrimonio la sua assenza è interpretata come segno di vedovanza. Il nome scelto ha valore simbolico: con l’attentato di Pahalgam, che ha avuto ad oggetto uomini hindu, i terroristi hanno tolto il sindoor alle donne hindu, causando vedove. Il nome fa giustizia sugli uomini uccisi, onorando le vedove.
[29] Gli attacchi hanno interessato basi aeree relative ai tre Comandi Aerei pakistani: Settentrionale, Centrale e Meridionale. Sono state colpite infrastrutture logistiche fondamentali a Rawalpindi, vicino Islamabad e a Sargodha che nel centro ricovera i migliori caccia e piloti ed è a soli 20 km da Kirana, sito che custodirebbe parte dell’arsenale nucleare pakistano
[30] Avvenuto tramite missili anti-aerei cinesi PL15-E
[31] Mentre il Pakistan considera il Cpec (Corridoio economico Cina-Pakistan) come mezzo per attrarre investimenti, per la Cina è strumentale alla connessione dello Xinjiang all’Oceano Indiano, aggirando Malacca
[32] L’impero turco-mongolo Mogul con le sue conquiste ha inciso sulla storia indiana, tanto che i turchi di Erdoğan vengono percepiti da Delhi come volti a riconquistare spazio verso est rafforzando i rapporti con Pakistan e Bangladesh e sobillando i musulmani residenti nel subcontinente. Secondo l’intelligence indiana Ankara è diventata il perno delle attività anti-indiane seconda solo a Islamabad.
[33] Quanti missili aria-aria PL-15 e terra-aria HQ-9 sono stati lanciati dalle forze pakistane, da quali piattaforme, a quali distanze, contro quali aerei indiani e quanti hanno effettivamente colpito i bersagli? Se i caccia indiani sono stati colpiti durante l’esecuzione di manovre evasive nonostante le lunghe distanze, allora si avrebbe una dimostrazione significativa della letalità dei missili cinesi. C’è tuttavia un’altra incognita; i sistemi ECM indiani, incluso lo SPECTRA del Rafale, disponevano di dati aggiornati e di programmi di contromisure per radar e missili specifici da cui venivano ingaggiati? Quanto è stato significativo il ruolo svolto dall’assistenza fornita alla PAF dalle costellazioni orbitali ISR e C2 cinesi? Questo elemento avrebbe potuto migliorare la capacità pakistana di fornire aggiornamenti di guida a metà rotta alle armi in volo, in più condurrebbe ad un successo il primo test di combattimento ingaggiato tra aerei da combattimento e missili cinesi contro gli equivalenti occidentali e russi, secondo scenari di operazioni a lungo raggio e interdominio interessanti l’EPL in qualsiasi scontro con le forze americane nell’Indo-Pacifico.
[34] Il prezzo delle azioni di Dassault è diminuito, mentre quello di Chengdu, il produttore del J-10CE è aumentato.
[35] Altri tentativi sono affondati nell’assurdità e.g. affermando che i missili balistici indiani erano puntati contro i centri abitati sikh del Punjab.
[36] Entrambi i governi hanno affermato che centinaia di droni, dai quadricotteri alle piattaforme da combattimento a più estesa autonomia, sono stati lanciati spesso per missioni unidirezionali.